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A cosa serve la festa del Redentore? (ossia: la vita comincia a cinquant’anni!)

Il Cinquantenario del Cristo Redentore di Maratea

Lo scorso 14 giugno la comunità di Maratea si è riunita ai piedi del suo monumento simbolo per festeggiarne i primi cinquanta anni di vita. Dal 1965 al 2015, l’esistenza del Cristo Redentore di Bruno Innocenti è stata un «grido sottovoce»: è sempre stato lì, ma non possiamo dire di essercene sempre accorti. Oggi, d’un tratto, siamo tutti intorno a lui per festeggiarlo. Ma a cosa serve di preciso questa festa?

Serve a vedere cosa abbiamo
Si è sempre attribuito a Stefano Rivetti (1914-1988) l’idea di sostituire la vecchia Croce Commemorativa sul monte San Biagio con un grande monumento al Cristo risorgente. Chi studia la storia marateota non ha motivo di dubitarne: sebbene il progetto fosse stato lanciato dalla Democrazia Cristiana nella campagna elettorale per le comunali del 1960, lo scultore Bruno Innocenti (1906-1986) stava lavorando ai bozzetti già da un paio di anni.
Innocenti era un ometto taciturno, eccentrico e geniale. La famiglia racconta che quando andò a vivere a New York si costruì da solo i mobili del suo appartamento recuperando legname abbandonato sulle rive dell’Hudson. Quando tornò in patria prese i mobili, li sfasciò e li buttò nel fiume.
Per realizzare la statua doveva prima risolvere tutta una serie di problemi ingegneristici e piegarli, per quanto possibile, alle necessità dell’arte. Prima progettò lo scheletro di cemento armato che regge la statua, poi la malta speciale di Breccia Medicea – e non marmo di Carrara come comunemente si dice! – che avrebbe composto la statua.
Per la postura della statua era indeciso. Innocenti aveva pensato di far stare il Cristo in piedi, con le mani alzate come a dire il Pater Noster e il capo piegato tristemente verso il basso. Poi pare fu Rivetti a convincerlo a cambiare posizione ed ispirarsi ad una celebre fotografia di Pio XII dopo il bombardamento del quartiere romano San Lorenzo nel 1943.

Dal modellino di gesso Innocenti ricavò dodici formine gigantesche (scala 1:1) della statua definitiva e le fece trasportare a Maratea, dove già si era provveduto a costruire lo scheletro di cemento.
«Nel settembre del 1964 venne dato inizio alla gettata che fu terminata il 18 dicembre 1964. Da luglio a novembre del 1965 venne effettuato il lavoro di finitura con gli scalpellatori», annoterà semplicemente lo scultore sul suo diario.
Uscito fuori dall’ingombrante impalcatura, il Cristo si stropicciava gli occhi forse non come i bambini appena svegliati ma piuttosto per cercare di non vedere il disastro che un gruppo di pazzi scatenati – e miserabili conviventi – stavano perpetrando alla basilica di San Biagio, fino ad allora la chiesa più bella e ricca di Maratea e da allora ridotta ad un obbrobrio, derubata persino del pavimento originale. Un crimine, questo, che ancora – e chissà quanto ancora – urlerà vendetta a Dio e agli uomini.
In ogni caso, a stropicciarsi gli occhi sono stati pure tutti quelli che per i successivi cinquant’anni, nel vedere la statua, si sarebbero puntualmente chiesti perché mai Gesù Cristo venendo a Maratea si sia tagliato i capelli e spuntata la barba. Ma è Innocenti stesso che ce lo spiegò: «Ho inteso di attenermi a un linguaggio chiaro e il più possibile contenuto ed essenziale, perché, nelle dimensioni della statua, ritengo sarebbero stati controproducenti atteggiamenti e dettagli che avessero richiamato una realtà spicciola, contingente, minutamente reale.»
E però, Innocenti era anche un gran furbacchione. Se giudicava veramente troppi dettagli controproducenti, come mai la statua ha unghie, narici e palpebre così ben delineate? Il livello di dettaglio c’è ed è anche alto. Perché allora non l’iconografia classica di Cristo?
Da artista, Innocenti probabilmente voleva che l’opera parlasse da se. E il Cristo di Maratea parla con un simbolismo che mischia il viso di Apollo di una statua marmorea e candida (come quelle greche) con le sembianze di Cristo che cristianamente risorge dai morti: l’anima cristiana e l’anima classica del Sud Italia, terra di Santi ma antica Magna Grecia. Lo dicevo io che Innocenti era un genio!

Serve a ricordare da dove veniamo
Per tanto tempo sulla storia dei Rivetti a Maratea ci sono state due versioni. In entrambe il protagonista era uno solo, Stefano Rivetti, il giovane rampollo della dinastia di lanieri biellesi. La prima versione era quella in cui si leggeva l’intervento dei Rivetti a Maratea come quello di dei filantropi, innamoratisi chissà perché di Maratea e decisi a trasformarla da un paese poverissimo a stella del turismo e sede della più moderna industria tessile. La seconda versione, invece, parlava di sfruttatori piovuti dal nord, interessati a derubare i locali delle ricchezze (almeno potenziali) del loro territorio.
Chi ha la mia età ha sentito raccontare spessissimo entrambe le versioni… e, a seconda di quale si sentiva, si poteva facilmente capire se il narratore avesse o no (e in che modo) avuto a che fare con il Rivetti!
A noi, generazioni successive, di tutto questo deve interessare poco. Ora i ricordi sono diventati fatti e la memoria è divenuta storia. Lo storico ha poco interesse a conoscere queste beghe. La soluzione del caso Rivetti a Maratea va cercata come quella di qualunque altro episodio storico. E lo storico, è bene ricordarlo, non cerca nè diavoli nè santi: compito dello storico è di comprendere, non di giudicare.

La storia, si sa, non si scrive per paese. La storia di Maratea, anche in questo caso, non esiste. Esiste solo la storia d’Italia, che, come sempre, coinvolge ogni suo paesello. E la storia d’Italia ci racconta di un momento in cui si decide di investire ingentissimi capitali nell’area meno sviluppata del Paese, che questi capitali finiscono in molte mani e che queste mani li usano qualche volta bene, spesso male e il più delle volte anche peggio.
È il 1950 e nasce la Cassa per il Mezzogiorno. Dopo tre anni, Ezio Oreste Rivetti (il padre di Stefano dimenticato dalla memoria popolare) cerca di intercettare quegli investimenti. Per farlo, trovano Maratea, unico comune del Mezzogiorno sul mare a confinare con due province diverse: il che significa, per un comma della legge speciale, avere la possibilità di sconfinare e usufruire di tre tranche di fondi pubblici.
Nel 1955 apre il Lanificio Maratea, a cui, nel ’56, si affiancherà quello di Praia a Mare. Nel 1957 apre l’Hotel Santavenere, espressione in campo turistico delle imprese Rivetti, che hanno ricevuto dalla Cassa diverse centinaia di milioni di lire. Ma la gestione risulta pessima: nel 1964 c’è un rosso in bilancio di 480 milioni! Tutto fallisce, lanificio e albergo fanno all’ENI, poi a privati. Ora, come si sa, c’è solo l’albergo.
È proprio quando la storia dei Rivetti a Maratea sta finendo che appare il Cristo. Fu normale, quindi, che molti a Maratea videro in esso il grande simbolo di quell’episodio storico. Normale, di conseguenza, anche che qualcuno lo amasse e qualcun altro no. Tanto che – è giusto ricordarlo – non vi fu all’epoca alcuna cerimonia di inaugurazione. Anzi, fino al 1973 la statua rimase al buio di notte, oscurata o quasi censurata pure dalla pubblica illuminazione!
Ed è anche per questi sentimenti contrastanti che la statua si è beccata giudizi infelici da parte di firme di tutto rispetto. Uno scrittore della levatura di Giorgio Bassani (1916-2000) nel 1967 scrisse che Cristo di Maratea «non riesce, essenzialmente, che a deturpare il paesaggio. Il monte San Biagio, su cui si erge, è ridotto da esso, per totale assenza di termini di confronto, a un sasso da niente, ad una specie di altarino da uso domestico. Guardiamolo serenamente, attenendoci ai criteri della pura visibilità: e non ci sarà difficile riconoscerlo per fratello di tante altre statue del tempo fascista, appena appena camuffato, com’è, dall’atteggiamento gigionescamente serafico, d’un detentore del cattolicesimo.» Un giudizio, questo, profondamente intriso dal preconcetto, che, poco avendo a che fare con la critica d’arte (o di storia), non riesce che a far fare una pessima figura ad un grande letterato!
Le circostanze della genesi di un’opera, infatti, non ne devono marchiare per sempre il senso. Pensiamo al Colosseo di Roma. È nato per essere il teatro di barbarie inaudite – gladiatori che combattevano fino alla morte per il gaudio del pubblico, massacri di schiavi, martirio di cristiani –, oggi è diventato il simbolo della grandezza della civiltà latina agli occhi del mondo intero. È un esempio da cui dovremmo trarre lezione.
Ma, quindi, quale può essere oggi il senso da dare al Cristo di Maratea?

Serve a capire cosa possiamo diventare
Lo scorso 14 giugno la comunità di Maratea si è raccolta ai piedi del Cristo per una celebrazione, religiosa quanto civile e istituzionale, condita con il ben noto momento dei “discorsi” delle varie personalità intervenute. Poi, in paese, c’è stato un concerto. A luglio, agosto, settembre e anche ad ottobre avremo altri eventi, inseriti tra gli altri del programma estivo.
Spero che anche uno solo di questi eventi riesca a lasciare indelebile ricordo a tutti i cittadini e gli ospiti di Maratea a eterna memoria di questa grande occasione.
Ma – pare doveroso pensare – dopo, cosa sarà? Spero non seguiranno altri cinquant’anni di sordina. D’altra parte, però, non si deve pensare di accompagnare per mezzo secolo il Cristo di Maratea con costosi (quanto artificiosi) eventi per ricordarci che lui sta lassù, sulla cima del monte. Una cosa del genere sarebbe veramente inutile. Il Cristo, infatti, non ha bisogno di eventi per renderlo degno di dirsi attrazione turistica. Né di feste inventate per festeggiarlo. Il Cristo di Maratea, mi pare, deve solo trovare il suo posto.
Il senso turistico finora dato al Cristo di Maratea, duole dire, è stato quello di gemello povero del Cristo di Rio de Janeiro. Ci siamo anche raccontati che il nostro Cristo è il secondo al mondo: sappiamo benissimo non essere così, basta pensare che lo stesso Cristo di Rio è solo il terzo, per altezza, di tutte le sculture su Gesù al mondo!
In realtà, il Cristo Redentore di Bruno Innocenti è molto di più. In una Maratea che si deve aprire al mondo come meta di turismo non solo legato alla balneazione, il Cristo appare – è il caso di dire! – come un’opera della Provvidenza. Il Cristo di Maratea, per volere del suo autore, rappresenta l’ideale (e forse unica al mondo) simbolo delle basi della c. d. cultura occidentale, ossia essere contemporaneamente simbolo della cultura cristiana e della cultura classica: rappresenta il Cristo nelle forme d’una statua di stile greco-romano. Per quanto semplice può apparire, battere questa strada – che è già lì, a portata di mano – con le dovute strategie mediatiche significherebbe rendere il monumento un simbolo culturale globalizzante, non solo per Maratea o per la Basilicata, garantendo alla nostra Città una visibilità forse incalcolabile.
Se poi vogliamo scegliere un giorno per riunirci ancora ai piedi del monumento, non credo necessario supplicare le autorità ecclesiastiche di darci un giorno per una festa del Redentore, che si voglia o no cozzerebbe con i ben più radicati festeggiamenti per il santo patrono Biagio. Che bisogno, d’altra parte, di trovare un giorno per una festa ad una statua di Cristo Risorto quando c’è già la Pasqua?
Legare la grande statua ad una festa che non solo esiste da secoli, ma che ha anche un bel ponte di giorni feriali ed è vicina alla festa di maggio per S. Biagio e, attraverso essa, a due passi dai primi tempi della stagione balneare, sembra un’idea così scontata che è stato forse da pazzi non averci finora pensato!

Ma, di certo, non siamo in ritardo. La vita, si dice sempre, inizia a cinquant’anni…

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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