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Attualità e limiti del meridionalismo di Francesco Saverio Nitti

Francesco Saverio Nitti (1868-p1953) non è stato semplicemente un paffutello uomo politico di Melfi che un giorno comprò casa ad Acquafredda. Fu il padre del meridionalismo scientifico e una delle migliori menti di questa Nazione.

La lettera a Roux.

Riassumere il pensiero meridionalista di Francesco Saverio Nitti richiederebbe l’attenta lettura di una imponente mole di scritti e dati raccolti se lo statista melfitano non avesse riassunto le sue riflessioni in un solo breve e incisivo testo.

Si tratta di una lettera destinata al suo editore, composta il 15 aprile 1900, posta a mo’ di introduzione a uno dei suoi libri.

Prima dell’Unità.

Nitti non pose mai in dubbio il valore morale e materiale dell’Unità nazionale. «L’Italia dal 1860 ad oggi ha compiuto progressi meravigliosi: nessun paese forse ne ha compiuti tanti nello stesso periodo […]  Dal 1860 ad oggi l’Italia e cresciuta del 44,40% per popolazione; ma la ricchezza generale si e forse triplicata. Non avevamo nulla e abbiamo dovuto fare tutto. Abbiamo ricostruito oltre 13 mila chilometri di ferrovie, una grandissima rete di strade; abbiamo creato un esercito e una marina, che, se non ci hanno dato la vittoria militare, hanno almeno contribuito potentemente a cementare l’unità e non ci fanno essere isolati e indifesi nel mondo. Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non aveva quasi che l’agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L’Italia centrale, l’Italia meridionale e la Sicilia erano in condizioni di sviluppo economico assai modesto. Vi erano intere province, intere regioni, quasi chiuse a ogni civiltà. L’Italia nuova ha dato 50 mila scuole elementari e 1.000 scuole secondarie a, un paese in cui il popolo era a un livello intellettuale bassissimo […] L’Italia è l’unico paese che nella storia della civiltà dia l’esempio di una vera resurrezione, dopo una servitù e una decadenza di secoli. La Grecia, la Spagna non han saputo risorgere».

Queste parole bastano a dissipare ogni accostamento tra Nitti e il revisionismo risorgimentale, men che mai quello che oggi si accompagna coll’aggettivo neoborbonico. Anzi, fu lo stesso Nitti a mettere in guardia contro simili derive: «noi, che siamo nati dopo quel tempo, non ricordiamo quanto poco valessero quelle cose che ora con troppa leggerezza si esaltano. Il solo male vero che ha l’Italia odierna è la poca fiducia in sé stessa: poiché ella ingrandisce a torto il passato e non vede con serenità il presente».

Il Mezzogiorno dopo l’Unità.

Ben diverso fu il giudizio di Nitti sulle politiche del nuovo Stato unitario nei confronti del Mezzogiorno.

A suo parere, «l’unità d’Italia non poteva esser fatta se non con il sacrifizio di alcune regioni, soprattutto del Mezzogiorno continentale. Questa grande zona, mentre, all’atto della costituzione del Regno, portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica, dalla sua situazione geografica era messa alla più grande distanza dal confine. La conformazione dell’Italia – che non ha riscontro in nessun paese d’ Europa – determinava, in un primo periodo, grandissimo esodo di ricchezza dal Sud al Nord.
L’Italia del Sud era il reame, il reame per eccellenza come dicevano gli storici: l’Italia del Nord era divisa in molti Stati e ognuno di essi avea istituzioni proprie. Queste ultime furono conservate con cura; e quando erano meschine’ furono ingrandite. Il Sud perdé il suo esercito, la sua burocrazia innumerevole e povera: e vide in pochi anni, quando la ricchezza non era cresciuta, crescere smisuratamente le imposte.
Tutto è stato fatto senza malevolenza; è stato effetto, anzi, di necessità.
Il confine spostato potea permettere che, come nel 1859, fossero nel Sud quasi 100 mila soldati?
I bisogni imperiosi degli anni che seguirono il 1860 rendevano necessario aumentare l’entrata. Si poteva adottare il regime fiscale di Napoli, cosi blando e così disadatto, a un paese in trasformazione?
La burocrazia meridionale era borbonica: si potea non licenziarla quasi in massa?
La unità era da compiere e le guerre dovevano farsi al Nord.
Come non provvedere la Lombardia, il Piemonte, la Liguria, il Veneto di strade, di ferrovie, di forti? Dinanzi alla necessità suprema della difesa non è possibile discutere.
Vi era differenza nei debiti pubblici, differenza grande nei patrimoni di ogni Stato; ma nel momento dell’entusiasmo, nella gioia del sogno realizzate non era strane fare i conti?
Quando i capitali si sono raggruppati al Nord, è stato possibile tentare la trasformazione industriale. Il movimento protezionista ha fatto il resto, e due terzi d’Italia hanno per dieci anni almeno funzionato come mercato di consumo.
Ora l’industria si è formata, e la Lombardia, la Liguria e il Piemonte potranno anche, fra breve, non ricordare le ragioni prime della loro presente prosperità».

Tra l’altro, Nitti si dedicò a uno studio certosino – seppure tutt’ora ci manchino le esatte fonti da cui attinse i dati – sulla spesa pubblica dei primi anni del Regno d’Italia, da cui dimostrò che, contrariamente a quanto si pensava alla sua epoca, lo Stato avesse speso di più al Sud. Uno di questi dati, quello riguardo il patrimonio degli Stati preunitari, è stato reso celebre da un malinteso montato dal revisionismo: ne ho parlato qui.

Ma Nitti non ritenne che ciò fosse avvenuto per attuazione di un disegno o progetto politico del Nord ai danni del Sud, nè, tantomeno, a causa di un’inferiorità di razza (oggi si direbbe: di mentalità) degli stessi meridionali: «senz’ombra d’ ironia – non è il caso, né io vorrei – il Nord non ha colpa in tutte ciò: la sperequazione presente che ha messe a così diverse livelle regioni delle stesse paese, è stata frutto di condizioni pelitiche e storiche.
Ma il Nord d’Italia ha già dimenticato: ha peccato anche di orgoglio. I miliardi che il Sud ha dati, non ricorda più: i sacrifizi compiuti non vede.
Qualche autore ha detto perfino che in Italia vi sono razze superiori e razze inferiori. I meridionali appartengono piuttosto a quest’ultima categoria. Esiste una scienza, anzi una mezza scienza, che prevede senza difficoltà l’avvenire dei popoli e che sa dire chi sia capace di progredire e chi non. Questa mezza scienza si diletta a dire che i meridionali sono un ostacolo a ogni progresso; che persino ogni reazione viene dal Mezzogiorno.
Ora è bene che la verità sia detta: essa renderà l’Italia settentrionale mono orgogliosa e l’Italia, meridionale più fidente.
Quando si saprà ciò che quest’ultima ha date e quante ha sacrificate, sia pure senza volere e senza sapere, la causa, dell’unità avrà molto guadagnato».

La dualità economica italiana, quindi, per Nitti è quella che propriamente si dice un prodotto storico: la conseguenza di una serie di eventi che al loro accadere non davano alcun segno, in tutto o in gran parte, delle loro implicazioni ed effetti.

La politica nel Mezzogiorno.

Tantomeno potevano provvedere il futuro i politici meridionali. Su di essi il giudizio di Nitti è impietoso: «presi individualmente spesso valgono moltissimo; insieme, poco».
«L’Italia meridionale – scrisse ancora – unitasi incondizionatamente, era a un livello intellettuale molto più basso della Toscana e di tutte le regioni dell’Italia settentrionale. A causa di un dominio secolare si notava allora, si nota, tuttavia, un grande contrasto tra la morale pubblica e la morale privata. Quest’ultima, soprattutto dal punto di vista, familiare, è più elevata, in generale, che in qualsiasi altra terra d’Italia. La prima era – e chi può negare che spesso sia? – molto scadente. I governi assoluti avevano proibito quasi ai cittadini di occuparsi di politica: e spesso la politica voleva dire corruzione o sopraffazione.
È innegabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d’ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali. Un trattato di commercio ha quasi sempre per essi meno importanza. Che non la permanenza di un delegate di pubblica sicurezza. Concordi nel chiedere una legge speciale, un sussidio, sovvenzioni per danneggiati politici spesso immaginari, sono discordi in ogni grande opera collettiva
[…] Politicamente l’Italia meridionale è assente. È stata troppo conservatrice, né liberale, né radicale: è apolitica. È stata troppo tormentata, ha troppo dato, ha troppo sofferto. Vorrebbe avere un po’ di equilibrio e di assetto; la possibilità di respirare e di vivere.
Nel 1860, soprattutto dopo il 1876, l’Italia meridionale è stata considerata il paese destinato a formare le maggioranze ministeriali. I prefetti quasi non hanno altra funzione che di fare le elezioni. Un ex-ministro raccontava alla Camera, avergli un prefetto dichiarato essere arbitro delle elezioni, poiché poteva mandare tutti i sindaci della sua provincia in carcere.
Si è speculato da ogni partito sull’ignoranza e sul dolore. Dove bisognava tagliare il male, si e incrudito. Intere regioni sono state abbandonate a clientele infami.
Così il paese meridionale, che ha visto seguire in politica, in dogana, in finanza, in amministrazione l’indirizzo più opposto ai suoi interessi, e diventato scettico. Pur di non pagare metà dell’imposta fondiaria, rinunzierebbe a metà dello Statuto. Si considera il Mezzogiorno come una Vandea legittimista, come il baluardo delle istituzioni; e invece non e né fedele, né infedele, è indifferente. I Borboni erano molto amati dal popolo, che essi volevano ignorante e felice: l’anno prima che andassero via, facevano viaggi trionfali. E pure perdettero il regno da un giorno all’altro. I paesi che non fanno politica, sono i più rivoluzionari: gli odi covati nel silenzio, le dominazioni cieche, son quanto di più rivoluzionario si possa immaginare
».

Però, Nitti non cade neppure in semplificazioni. Non esistono baroni cattivi che ostacolavano (e ostacolano) consapevolmente lo sviluppo delle regioni meridionali. Anzi, «i proprietari del Sud [sono] costretti spesso a fare una vita che gli operai di Milano non accetterebbero».

Assodato che l’Italia tutta è un Paese naturalmente povero (e qui Nitti risentì del pensiero di Fortunato), neppure si poteva dire che i meridionali fossero pigri e indolenti.
«Io sono nato nella Basilicata, nella più povera terra del Mezzogiorno, e il ricordo di essa, pure nella lontananza, mi è nell’animo. Gli abitanti di quella regione sono ritenuti abili, poiché alcuni di essi sono stati prefetti, altri ministri: si dicea che molto avessero avuto dallo Stato. Ma tutte le volte che ho traversata questa terra, triste, solenne, povera, io mi son chiesto: in che cosa ella è stata abile? Questa parola, che è una lode e un’offesa, questa parola, che si pronunzia con stima e con diffidenza, in che cosa ha meritato? Avevo sentito dire in Lombardia che i meridionali non pagano, e negli occhi e nel cuore ho ancora l’immagine di centinaia di famiglie discacciate dalla terra, perché non avean potuto pagare le imposte; avevo sentito dire che non lavorano, e le povere plebi rurali avevo visto lavorare fino all’esaurimento, come in nessun luogo del mondo; avevo sentito dire che esiste una borghesia che nasconde i risparmi, e non vedevo che debitori insolventi, persone le quali si raccomandavano alle banche e ai pochi ricchi per non essere espropriate. Mi avevano detto infine che i figli della borghesia avessero invaso le amministrazioni pubbliche: e pur nell’esercito io ne ho trovato meno che non ne diano quelle regioni le quali odiano il militarismo».

Il limite di fondo del pensiero nittiano.

La via additata da Nitti per uscire da questo circolo vizioso fu lo sviluppo industriale, cioè quello che nei suoi anni stava trasformando l’Italia settentrionale, oltreché un nuovo posto del Mezzogiorno nella coscienza politica nazionale: «quando nell’Italia meridionale non saranno mandati i peggiori funzionari, ma i migliori perché l’opera loro è più difficile; quando le forme attuali di parassitismo saranno combattute e non aiutate, o non sarà considerato il Mezzogiorno come il campo di conquista di ogni condottiero, qualche volta di ogni avventuriero parlamentare; quando si agevolerà la, formazione della ricchezza e nessuna nuova imposta verrà a deprimerla; allora si aiuterà la trasformazione industriale del Mezzogiorno e il problema sarà risoluto».

Parole e bellissime e che anche noi, nel 2020, potremmo facilmente condividere.

Eppure, al termine di questo excursus, emerge il limite di fondo del pensiero nittiano, la cui influenza posteriore è evidentissima proprio dalla condivisibilità e attualità delle sue parole.

Nitti cade in contraddizione quando riconosce che l’arretratezza del Mezzogiorno è un prodotto storico – e come tale figlio di innumerevoli cause intervenute nei lunghi, se non lunghissimi, tempi della Storia -, quindi non riconducibile a scelte politiche sbagliate né, implicitamente, all’assenza di scelte politiche giuste (caso mai queste, data l’indeterminabilità del futuro, possano mai esistere) e poi addita soluzioni di matrice politica.

In questo senso, il Nitti uomo e politico del suo tempo, coinvolto col suo Partito Radicale nella lotta politica contro il Partito Liberale (che ebbe le sorti d’Italia in mano per i primi anni di Unità) emerge sul Nitti meridionalista.

Certo, è proprio della politica e dei politici presentare sé stessi e il proprio lavoro come in grado di intervenire strutturalmente nella società e nella sua economia. Ma politica e uomini politici sono anch’essi prodotti della Storia e figli del proprio tempo, né diversamente può essere la loro azione.

Così come la nostra vita, la Storia non conosce le ragioni di questa o quella ideologia, né si conforma ai dettami della scuola economica più in voga al momento.

Per quanto sia ragionevole (e sacrosanto) pensare che l’azione di un governo, nazionale o locale, possa incidere e debba giocare le sue carte per intervenire sui destini di un popolo o di una comunità, non tocca mai dimenticare che quella pluralità di eventi interconnessi che pigramente chiamiamo Storia ha ed avrà sempre l’ultima parola: intimamente e personalmente, chiunque avesse fatto programmi particolari per questo 2020 lo capisce perfettamente…

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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