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Le modificazioni dell’interno della basilica di S. Biagio

Questo scritto è dedicato a Mario Di Trani, che tempo addietro mi invogliò a scriverlo.
Oggi lo condivido con tutti gli appassionati delle cose della nostra Maratea col promemoria che faccio a me stesso:
non diamo tempo al tempo, purtroppo non ne siamo padroni.

La basilica di S. Biagio è il più importante luogo di culto di Maratea, oltre a essere un pezzo di cuore per tutti i Cittadini e i Fedeli.
Sbirciando nei cassetti del sito dell’amico Biagio Calderano o in qualche vecchio libro, ci accorgiamo di quanto e di quante volte l’aspetto interno della chiesa è cambiato. Queste righe vogliono mettere un po’ d’ordine alla cronologia e alle ragioni di quei cambiamenti.

La storia dei primi secoli della chiesa è sconosciuta. Soltanto la tradizione popolare, leggendaria o pseudo-leggendaria, ha fornito, finora, quegli elementi che pedissequamente vengono trascritti in ogni opera, senza – va detto – il necessario sforzo interpretativo critico.
Secondo questa tradizione, la chiesa sarebbe sorta su un tempio pagano dedicato a Minerva. Originariamente l’edificio consisteva in ciò che oggi è il presbiterio, poi si sarebbe allargata includendo l’edificio che ora ospita le navate. Sarebbe nata come chiesa della Madonna delle Grazie o della Visitazione della Vergine, cambiando intitolazione quando ricevette le reliquie del santo armeno.
La collocazione di un tempo dedicato a un dio o una dea pagana sulla cima del monte non è mai stata accertata archeologicamente, sebbene non siano mancati ritrovamenti di reperti di età romana durante il restauro dei vicini bastioni della cinta difensiva di Maratea Castello. La cosa, quindi, va tenuta con le debite cautele, nonostante sia probabile, oltre che possibile, dato che la sagoma del monte ben si configura come il sito di uno dei santuari costieri diffusi in epoca antica e che il culto di S. Biagio e altri santi taumaturgi si sia sostituito spesso a quello di Minerva.
La tradizione che il monte fosse in antico dedicato a questa dea pare essersi diffusa nel XVIII secolo, così come un po’ tutta la narrazione storiografica che vuole Maratea di origine magnogreca.
Molto più recente, invece, è lo schema di sviluppo delle strutture: ancora nei primi del XIX secolo Carmine Iannini (1774-1835), parroco della stessa chiesa, riteneva sì il santuario la somma di più edifici, ma, viste delle pitture che esistevano all’epoca in fondo al lato destro delle navate, supponeva anche «essere stata sulle prime quivi edificata una piccola Cappella; e poi a fianco di essa la Gran Chiesa di S. Biase». Lo schema in parola pare nascere con Domenico Damiano (1891-1969), anch’egli rettore del santuario, e da allora accettato da tutti, nonostante la strabiliante contraddizione logica che si ha quando si considera che gli elementi più antichi sopravvissuti nella chiesa, cioè l’affresco quattrocentesco della cosiddetta Madonna del Melograno e l’originaria collocazione dell’urna delle reliquie di S. Biagio (fino al 1940 ospitate nella Cappella poggiata al secondo pilastro destro della navata centrale), si trovino appunto nell’edifico delle navate.

Il più antico aspetto noto della chiesa in nostro possesso è, in verità, piuttosto frammentario. Nel 1728 Paolo D’Alitti (1676-1728) ci dice semplicemente che la chiesa «nella Città superiore, nel più sollevato del monte» e che in mezzo ad essa c’è «una piccola cella d’otto palmi di lunghezza, e sei di larghezza, incrostata di marmi, con colonne, cornicioni, e cupolette d’altri finissimi, e colori marmi; al di dentro adornata d’artificiosi stucchi posti in oro; la di cui porta è dalla porta occidentale verso la porta della Chiesa». In chiesa sopravvivevano altri affreschi altro quello della cosiddetta Madonna del Melograno, uno dei quali è descritto come «un’antica Immagine del Santo» da cui talvolta scaturiva anche la Santa Manna.
D’Alitti ci dice anche che la chiesa subì non pochi danni per l’incendio scaturito dal fulmine caduto il 16 ottobre 1624: forse proprio questa fu l’occasione che distrusse gli elementi medievali della struttura.
Iannini, dal canto suo, è purtroppo l’unica, e molto vaga, fonte che abbiamo sui lavori che Gaetano Ventapane, parroco dal 1720 al 1745, fece fare a sue spese. A lui si dovrebbe la trasformazione in marmo degli altari laterali e la costruzione del piazzale esterno. Al 1741 risalirebbe il campanile (originariamente a cuspide, poi distrutto da un fulmine nel 1811 e ricostruito come è ora). È interessante che Iannini scriva che Ventapane «fece gittare li Fondamenti, per ridurre a perfezione la Nav[ata] verso Settentrione»: la navata di sinistra, quindi, non era costruita bene come il resto della struttura o, quantomeno, non poggiava su un terreno altrettanto solido.
Nel 1849, infatti, la chiesa stessa minacciava di crollare da quel lato, tanto che il Comune, con l’aiuto delle offerte dei fedeli raccolte dal parroco del tempo, Giovanni Fiorillo (1780-1855), e dall’instancabile Giuseppe Ciceraro (1800-1886). I lavori furono talmente consistenti che un documento dell’archivio comunale dice che la chiesa venne «ricostruita dalle fondamenta».

L’aspetto della chiesa, a questo punto, è quello che vediamo nella più vecchia foto in nostro possesso.

Interno dal 1878 al 1927.

Unica differenza era, prima del 1878, l’aspetto della Regia Cappella del santo.

La Cappella senza i marmi del 1878 durante lo smontaggio per lo spostamento del 1941.

Lavorata nel 1618 con stucchi ricoperti d’oro zecchino, aveva «una doppia Porta si […]: una di ferro indorato, e lavorato a bastoncini quadrati, con tre fasce di antichissimo delicato bronzo, delle quali due sono all’estremità, ed una in mezzo: l’altra dipinta, perché di legno, di color verde nel fondo, e tutta intarsiata di Cornicette indorate. […]. Il Pavimento è ricoverto di mattoncini colorati, ed inverniciati, con vari emblemi; ed in uno di essi, una testa di antico Uomo nobile, collo scritto che dice Pernia. Le pareti, e le volte della Lamia, sono interamente intrecciate di elegantissimi stucchi posti in Oro, a Mosaico. […]. Nell’aprirsi dell’una, e dell’altra Porta […] si vede dirimpetto, nella parte in alto, e tra gli eleganti stucchi l’Immagine di S. Biase intieramente, posta in stucco dorato, e vestito da Vescovo. Al di sotto di detta Immagine, vi è come un gradino largo un palmo, e mezzo; in cui è propriamente nell’angolo verso Settentrione, con due ferri indorati, e mobili, si tiene la Statua di argento conservata. Nell’altro Angolo verso mezzogiorno, vi è il Sagro Deposito, cioè l’Urna contenente il Sagro Torace». All’esterno, invece, «sopra di detta Porta d’ingresso, vi è come un Quadro rotondo di stucco, posto con indoratura, ed in mezzo vi è scolpita l’effiggie del Santo a mezzo busto, con mitra in testa, e colla Città vicino; in cui stà scritto in una fascia di marmo al di sopra, con lettere cubitali Hic jacet Corpus Sancti Blasii Martyris. Sieguono ornamenti indorati; ed in mezzo una cifra di stucco indorato, che fà finimento colla corrispondente facciata del Cupolino di sopra fasciato di marmo dello stesso colore delle Colonne».
Nel 1878, il parroco Gennaro Buraglia (1831-1921) fece ricoprire gli stucchi con dei marmi rossastri e un medaglione, in marmo bianco, raffigurante il santo.

Morto Buraglia, gli succedette Giuseppe Iaselli (1861-1940). Nel 1927 il nuovo parroco raccolse gli oboli dei fedeli per quella che fu la prima radicale trasformazione della chiesa dopo secoli.
Le pareti e le arcate vennero lastricate con un sottile strato di finto marmo, decorato sulle volte con numerosi dipinti a olio, ad opera degli artisti Mariano Lanziani di Trecchina e dei fratelli Basilisco di Lauria.

L’interno della chiesa dal 1927 al 1941.

Seppure avesse lodato l’iniziativa del suo predecessore, Domenico Damiano, parroco dal 1940 al 1969, nel marzo 1956 diede incarico all’impresa di Rodolfo Napoli di eliminare tutti gli abbellimenti applicati nel ’27 sia all’esterno che all’interno della chiesa, lasciando solo una zoccolatura di marmo alla base delle pareti delle navate. Il lavoro, completato in appena quindici giorni, soddisfò molto il parroco, che nell’archivio parrocchiale annotò come ai suoi occhi il santuario aveva «riacquistato la sua bellezza e la sua primitiva solennità artistica, in una luce diffusa ed uguale in cui si elevano e si riflettono le linee e le curve degli archi e delle volte in una simmetria e originale disposizione».
In realtà, lo stesso Damiano aveva modificato non poco la disposizione di altari e quadri all’interno e, caso massimo, aveva spostato, nel 1941, l’intera Regia Cappella dalle navate al presbiterio.

Aspetto della chiesa dal 1956 al 1963.

Com’è noto, la chiesa ebbe pochi anni di pace.
Don Damiano rimase affascinato da una nuova idea avanzata dal conte Rivetti, interessato a quei tempi ad avvicinare il suo nome a ogni emergenza della nostra città. Tra il 1960 e il 1961 l’architetto fiorentino Stefano Berardi aveva elaborato un progetto che prevedeva un nuovo restauro e l’ingrandimento della chiesa, ottenuto prolungando la navata destra e creando così un nuovo ambiente affiancato al presbiterio. Tale progetto, accolto con entusiasmo dal parroco, fu bocciato dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici perché avrebbe stravolto l’originale struttura della chiesa. Vennero quindi autorizzati i soli lavori di restauro, beneficiari di un finanziamento della Cassa del Mezzogiorno nel 1962.
Eppure, quello che avrebbe dovuto essere un semplice risanamento del santuario si trasformò in qualcosa di molto diverso! L’atipicità dei lavori fu manifesta sin dal loro primo giorno, così drammaticamente descritto dallo stesso Damiano in un appunto, rimasto finora inedito, ritrovato nell’archivio parrocchiale:

«Il 10 settembre 1963, una compagnia di operai (nessuno specializzato) si presentò con ordine espresso di manomettere ogni cosa nella maniera più vandalica che si possa immaginare: altari di marmo del 1700 che oggi valgono milioni; trono del Santo Protettore; pulpiti; cantoria dell’organo; quadri; rilievi in marmo; balaustra; coro ecc. ecc. ecc. Tolto l’intonaco da tutte le pareti interne, restavano i pavimenti: tutto fu tolto senza alcuna misericordia! La Basilica rimase completamente vuota: venne ordine di mettere sul piazzale le colonne storiche e i marmi del trono di S. Biagio, e tutto fu eseguito con la massima sveltezza; venne poi l’ordine di togliere tutte le porte interne ed esterne… ma, a questo punto, ci opponemmo energicamente: le porte che menano sul sacrato rimasero; venne anche l’ordine di smontare l’organo, ma anche qui ci opponemmo […]. Dopo aver rifatto l’intonaco e null’altro, il 13 agosto 1964, furono sospesi i lavori di smantellamento definitivamente».

Com’è facile immaginare, Cittadini e Fedeli di Maratea furono scioccati di vedere il santuario del santo patrono spoglio e oggetto di quello che pareva un atto vandalico. Tuttavia, lo stesso don Damiano tentò di tranquillizzare gli animi con un articolo apparso nel bollettino parrocchiale del novembre dello stesso 1963, in cui assicurava che «l’antichissima struttura che rimonta, secondo il parere degli esperti, al primo settecento, rimarrà sempre tale, e nessuna cosa sarà mai tolta o aggiunta a ciò che forma l’imponente architettura primitiva, alle arcate delle tre navate armonizzate tra loro dal gusto artistico dei primi tempi dell’arte cristiana. Voler dunque dire senza ancora aver visto nulla che l’antica chiesa non sarà come prima, non è esatto perché la massima cura degl’ingegneri e degli architetti, chiamati in causa per una simile importante opera, sono tutti d’accordo ad apportare soltanto le congrue rettifiche senza affatto modernizzare ciò che si può dire il carattere di una lunga corsa di secoli. […]. Tutto rimarrà come prima, ma tutto subirà una rettifica ed una linea assai più precisa, dovrà essere l’ornamento estetico che nulla toglierà alle vetustà del tempio. Tutti gli spostamenti che verranno effettuati sotto la direzione di valenti architetti non contrasteranno affatto coll’arte sacra, anzi si avvicineranno maggiormente ad essa togliendo di mezzo ciò che è superfluo o non adatto alla casa di Dio».
Ed invece l’originale struttura architettonica fu proprio il principale oggetto di manomissione nei lavori, ripresi alle soglie dell’estate 1967 dalla ditta Ronga di Vietri sul Mare (SA) e diretti dall’architetto Mauro Zampini.
Non so dire se Zampini seguì il progetto di Berardi, ma pare abbastanza chiaro che fu questa la serie di lavori in cui gli archi gotici a sesto acuto del presbiterio furono ridisegnati a tutto sesto per uniformarli al disegno romanico delle navate, oltre alla demolizione dell’artistico architrave posto quasi al centro della navata centrale, la muratura della finestra che esisteva in fondo alla navata sinistra all’altezza di dove oggi si vede la lapide funeraria della famiglia Deodato, l’avanzamento del piano rialzato con i gradini del presbiterio fino al limitare delle navate e la demolizione del fondo in roccia della navata di destra e del vano adiacente al campanile.
A tutto ciò si deve aggiungere il totale rifacimento del pavimento della chiesa, durante il quale le sepolture esistenti sotto il piano di calpestio delle navate furono svuotate e le ossa che contenevano macabramente accatastate nel piazzale antistante la basilica…!
I lavori, nuovamente interrotti tra il 18 marzo e il 6 agosto 1968, ebbero termine nell’estate 1969.
Il santuario fu riconsegnato ai fedeli e al clero devastato nell’architettura interna e disadorno, in quanto all’interno apparivano solo la Regia Cappella con le reliquie di S. Biagio e le nude pareti.
Soltanto grazie all’iniziativa del Centro Culturale diretto dal cav. Marini D’Armenia si salvarono e ricollocarono gli antichi altari settecenteschi… salvatisi dalla distruzione perché qualcuno, nottetempo, ne recuperò i pezzi e li nascose nelle stoffe della propria biancheria!

Da allora il santuario è così come lo vediamo oggi. Per anni la pietà popolare ha parlato dei lavori del 1963-69 solo sottovoce, oggi, pian piano, qualcuno ne parla per quel che furono realmente.
Il santuario ha avuto tante vite… speriamo che durante la nostra potremo vederlo, nei limiti di quanto la Legge consente, splendente com’era un tempo!

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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