Perché la chiesa di S. Francesco da Paola di Maratea è piena di lapidi?
La Chiesa ricorda S. Francesco da Paola, compatrono di Maratea dal 1729, il giorno 2 aprile. Quest’anno in quel giorno è caduta la Domenica delle Palme, per cui i festeggiamenti in onore del santo calabrese sono stati posticipati.
Nel frattempo, oggi scopriamo una piccola curiosità sulla sua chiesa a Maratea.
Una volta, i morti si seppellivano nelle chiese.
È un fatto abbastanza noto, nonché una premessa necessaria per il nostro argomento.
Le chiese utilizzate per le sepolture a Maratea erano relativamente poche. In epoca moderna, il Santuario di S. Biagio era l’unica chiesa nella parrocchia di Maratea Castello. Il santuario aveva undici sepolture, otto delle quali appartenenti a famiglie gentilizie. Le restanti tre erano quella dei bambini morti prima dei 7 anni, la sepoltura comune e quella dei sacerdoti.
Nella parrocchia di S. Maria Maggiore, invece, non tanto la Chiesa Madre, quanto l’Annunziata era la principale fossa per i defunti. Qui, tra l’altro, le sepolture gentilizie sono facilmente individuabili perché, ancora oggi, sopra i quadri degli altari laterali sono rappresentati gli stemmi delle famiglie a cui appartenevano.
L’invenzione dei campisanti moderni.
Nonostante il mondo antico mediterraneo avesse dei luoghi, fuori le mura delle città, deputate alle sepolture (le necropoli), l’Europa moderna espulse i morti dal circuito degli abitati solo all’inizio del XIX secolo.
Dopo la conquista francese del Regno di Napoli si promulgò anche nel Mezzogiorno d’Italia una legge per la creazione dei campisanti, luoghi deputati a sostituire le sepolture nelle chiese – considerate antigeniche – e diventare l’unico luogo per la tumulazione o l’inumazione dei morti. Ma in molti paesi, compresa Maratea, questo passaggio fu una vera e propria odissea.
Il primo progetto del camposanto di Maratea.
In un documento dell’archivio comunale del 1829 abbiamo traccia del primo tentativo di costruzione di un camposanto, il cui progetto all’epoca risultava già abbandonato. Nel documento di dice che il «Campo Santo principiato nella Contrada detta Mazzarelle, non è niente adatto, anzi incomodo per questa Popolazione per tanti riflessi, come sono la lontananza di circa due miglia, la strada alpestre, la situazione non Centrale, il terreno ghiaioso, perché sito in un punto dove manca il Sole tre mesi, e quindi non atto a favorire la decomposizione de’ Cadaveri».
Il sindaco Donato Marini D’Armenia, allora, proponeva di spostare il progetto. Secondo il sindaco, «il Luogo unicamente adatto, e che offre insieme un risparmio, è quello in contrada nominata S. Giovanni, esistente non molto lungi dall’Abitato in elevato sito, e quindi esposto nella sua isolazione [sic] al soffio di ogni vento, che comunque si scaglia, e da qualunque parte spira, anche in grado fortunale, giammai le esalazioni possono penetrare nel Comune, perché sempre coll’infuori, ed in lontananza di dissipano… considerando [anche] che nella nominata Contrada vi è un’adiacente Cappella eretta sotto lo stesso titolo, che apre al pubblico, al quale appartiene, e che non ha nel suo circuito profondità di terreno, da potersi cavare dalle fossate, che la inumazione impreteribilmente richiede, sia come si sperimenterebbe in ogni altra parte anche più lungi del Territorio, per essere petroso, e quindi povero di terra mobile».
L’idea piacque agli organi amministrativi, ma la spesa per realizzarlo richiese di trovare una sistemazione provvisoria, perché nel 1839 era stata ordinata la chiusura delle sepolture delle chiese.
Il camposanto provvisorio.
Si scelse allora di utilizzare come camposanto provvisorio la chiesa di S. Francesco di Paola – all’epoca non circondata da case – «la quale contiene sufficiente numero di sepolture, atte a contenere i cadaveri del Comune, ed a supplire al momento per l’oggetto, e sita da circa un quarto di miglio dall’Abitato e nella parte bassa del Paese, in modo di non poter arrecare nocumento veruno alla pubblica salute».
Il progetto a S. Giovanni naufraga.
Intanto, la famiglia Di Lieto, proprietaria di alcuni fondi intorno la cappella di S. Giovanni, ricorse contro la decisione di costruire lì il camposanto. Secondo la famiglia anche la cappella apparteneva a loro e la decisione del Comune era inapplicabile. Il Comune cercò di far valere le sue ragioni, ma quando, nel 1840, si fece un sopralluogo a S. Giovanni con un perito – un tal ingegner Dente – si ebbe una sorpresa: il luogo «non può essere addetto a tal uso per essersi rinvenuta dell’Acqua nel fondo, come oculatamente ha osservato il detto Signor Dente, nella cui presenza si è scavato il terreno, ed alla profondità di circa un palmo subito è comparsa l’acqua, ciò che prima non erasi verificato; ed una tal cosa è dipendente dal trovarsi il sito prescelto alla falda del Monte S. Biase, per cui soggetto sempre ad inondarsi».
Non solo il progetto del camposanto vero e proprio era naufragato, ma allo stesso tempo, la situazione di quello provvisorio cominciò a mostrare tutta la sua drammaticità.
La chiusura al culto della chiesa di S. Francesco.
La chiesa di S. Francesco iniziò a riempirsi di cadaveri a un ritmo maggiore di quanto la naturale decomposizione dei corpi permetteva di recuperare spazio. Per cercare di controbilanciare, nel 1843 si decise di permettere ai membri delle congreghe di riprendere a seppellire i propri morti a parte, ognuno nelle chiese dove avevano sede.
Le sepolture gentilizie furono sequestrate, anche per evitare le ambigue situazioni in cui certe famiglie provavano a vendere le proprie sepolture al Comune, conoscendo la situazione di bisogno.
Nel 1846 la chiesa di S. Francesco fu chiusa al culto. Anche la statua del santo di Paola fu trasferita. Non si riusciva più a entrare stante «l’insoffribile puzzore che sentesi». La situazione stava sfuggendo di mano, anche perché particolari cittadini, per dare sepoltura ai propri defunti, avevano «rotto e scavato il pavimento in vari punti, ed ivi indecentemente si pratica l’inumazione de’ Cadaveri colla copertura di poca terra e calce».
Rifiutando le proposte degli organi superiori di costruire un camposanto per inumazione a La Moneca o in altri punti della valle, il Comune di Maratea insistette più volte, a questo punto, per trasformare la parte intanto crollata dell’ex convento dei Paolotti (di cui la chiesa di S. Francesco faceva parte) in un camposanto per tumulazione.
Il braccio di ferro non si risolse mai, costringendo il Comune a decidere «che urgentemente dovesse aprirsi una Sepoltura per ogni Chiesa del Comune pel seppellimento de’ Cadaveri, e ciò finché vanno a principiarsi i lavori del nuovo Camposanto, non essendovi altro mezzo con cui poter dar riparo all’imperiosa Circostanza». Una delle chiese più sfruttate in questo senso fu S. Vito, adatta perché isolata. Nel 1856 venne anche autorizzata la costruzione di una sepoltura nella chiesa di Cersuta, che ne era priva.
Le lapidi in chiesa.
La situazione si risolse solo dopo l’Unità d’Italia.
Intono al 1870 si rispolverarono i progetti e si cominciò a cercare un terreno dove installare il camposanto definitivo. Nel 1878 fu scelto un terreno di proprietà del sig. Biasantonio Napoli in contrada La Moneca. Venne acquistato dal Comune nel 1879 per 4.337 lire. L’appalto dei lavori venne chiuso nel 1881 e il 3 febbraio 1888 il cimitero ospitò il primo defunto, l’ottuagenario Francesco Panza.
La chiesa di S. Francesco tornò pian piano a essere solo un luogo di culto. Ma, a ricordo di questa sua pluridecennale funzione, esistono ancora numerose lapidi, apposte dai parenti di alcuni defunti, inumati sconsolatamente alla terra sotto il pavimento della chiesa per lo più nel periodo di massima confusione dell’uso cimiteriale della struttura.
Quando ci troveremo in chiesa per festeggiare il nostro compatrono, dedichiamo un pensiero anche a quei nostri concittadini, che riposano letteralmente sotto di noi…