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Fare i soldi con l’aria fritta: il merchandising del revisionismo sul Risorgimento

Chi ha detto che con la cultura non si mangia forse avrebbe fatto meglio a specificare a che cultura si riferisse. Perché c’è una cultura, nel senso tyloriano del termine, quella che più va di moda, grazie a cui, se cavalcata a dovere, si può campare molto bene.

Non serve ricordarci delle 250mila copie vendute da Pino Aprile con il suo Terroni: tutto quello che è stato fatto perché gli Italiani del Sud diventassero Meridionali (Piemme edizioni, prima ed. 2010) per avere le cifre della questione. Un volume, quello di Aprile, scritto da un pubblicista con lo stile e il rigore che possono essere di un pubblicista (e non di uno storico o un saggista), che andando ad accarezzare le tesi di un revisionismo del Risorgimento tutto improntato all’idea di un Sud ricco e derubato dal Nord, ha intercettato – in maniera, bisogna dire, strepitosa – l’attenzione di quei lettori desiderosi di conoscere retroscena storici, economici e politici della questione meridionale ma così poco pratici di storia, economia e politica, da preferire una trama da romanzo a la Dan Brown, con tanto di presunte verità taciute da secoli (e pure qua c’è la massoneria!), e con tanti riferimenti all’attualità, quasi a voler sopperire l’identificazione empatica con (gl)i (assenti) personaggi.
Già, perché come ha brillantemente notato l’impareggiabile Giuseppe Galasso in un articolo sul Corriere del Mezzogiorno di qualche settimana fa, le ragioni e l’eventuale ufficio storico di questo “revanscismo borbonico” vanno cercate tutte nelle passioni e nei problemi dell’attualità. Sono questi che vengono traslati all’indietro fino al lontano 1860-61, rileggendo (quando non riscrivendo) tutti quei complessi eventi in un’unica brodaglia pseudostorica che non ha il sapore di null’altro se non di un «ci hanno sempre trattati così».
E se nel fare tutto questo ci si può fare qualche soldo, di certo non lo si disdegna.
Girovagando su Facebook ci si può imbattere in qualche post della pagina Briganti.

Rimaniamo subito stupefatti dai suoi ben 212mila followers. Straordinario! Può una pagina dedicata al fenomeno del brigantaggio avere così largo seguito? Basta scorrere un po’ i post e ci accorgiamo che la pagina pare la naturale prosecuzione su social network del libro di Aprile (e simili): briganti quali partigiani borbonici ovunque, Carmine Crocco ridotto a ragazza-immagine stile discoteca, gli immancabili primati delle Due Sicilie, approfondimenti sulla “veramente vera” storia del Risorgimento, nonché notizie aggiornatissime su temi che possiamo immaginare di vitale importanza per la civiltà del e nel Mezzogiorno quale la multa di 3mila euro imposta alla Juventus come risarcimento ad un tifoso del Napoli.
Ma la cosa che ci colpisce di più è un’altra. Basta sfogliare le foto, o seguire un link, che arriviamo allo store della pagina: un autentico catalogo di gadgets revisionisti. Magliette con i faccioni dei briganti in stile Che Guevara (colpisce quella di Ninco Nanco: non è il vero Giuseppe Nicola Summa, ma l’attore Branko Tesanovic che lo ha interpretato nel film di Squitieri!), felpe, borse e cover per Smartphone con il marchio della pagina, tazze da colazione con il giglio borbonico, cappellini per ogni stagione presentati con foto con tanto di modella ammiccante.
La descrizione di un item recita: «Briganti vuole diffondere uno spirito di solidarietà, unione, collaborazione e difesa comune fra tutti i Popoli del “Meridione”, nella consapevolezza di un passato, di un presente e, ancor più, di un futuro comune e condiviso. La felpa di Briganti permette a chi la indossa di sentirsi parte di questo unicum identitario.»
Chapeau, signori. Avete preso l’aria fritta e ne avete fatto business. A noi poveri amanti della storia, evidentemente, non rimane che la gloria. Ma quella, veramente, non paga.

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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