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Le reliquie di S. Biagio conservate a Maratea

Per secoli i nostri antenati hanno venerato il santo patrono senza avere prova certa che nella cassa di marmo conservata nel santuario ci fossero le reliquie del suo torace, come voleva una antica tradizione.

La scarica del fulmine.

Secondo una tradizione storiografica post-Settecentesca ha tramandato, esistevano dei documenti che raccontavano con precisione le circostanze della traslazione delle reliquie da Sebaste a Maratea e che certificassero la loro autenticità. Poi, il 16 ottobre 1624, l’incendio scatenato da un fulmine avrebbe incenerito tutto.

Sebbene sia vero che nel 1624 il santuario al Castello venisse colpito da fulmine, non ci fu alcun rogo di documenti. All’epoca, l’archivio parrocchiale era conservato in casa propria dai parroci. Ne abbiamo prova da un inventario dei beni della chiesa stilato nel 1672, che annovera «una platea di vinti oglia scritti, tre libri di battezzati l’uno del 21 ottobre 1580, un altro cominciato al 7 settembre 1588 e finito al 21 gennaio 1646 e l’altro cominciato al 28 gennaio 1646 e terminato al 14 luglio 1672. Un altro libro di confirmati cominciato al 25 settembre 1588 e finito al 7 aprile 1671, un altro libro di matrimonÿ  cominciati a dui di settembre 1588 è terminato a 10 del mese di marzo 1672; un altro de defonti  similm[en]te cominciato dalli 4 settembre 1588 et finito al 27 luglio 1672; quattro libretti dello Stato delle Anime al 1° dell’anno 1652, il 2° dell’anno 1656, il 3° dell’anno 1658 e l’ultimo dell’anno 1660. Item un mazzetto di libri di cenzi n. 15 un altro mazzetto di editti et altri varÿ scritturi vecchi et antichi; due sinodi un altro mazzo di editti et quinterni vecchi». Come potevano esistere tali documenti quarantotto anni dopo l’incendio? In realtà, molta documentazione sparì dall’archivio a fine XVIII secolo, per ragioni su cui non è opportuno dilungarsi in questa sede.

Occhio non vede…

Se mai sono esistiti dei documenti, essi sono scomparsi ben prima. Nel 1588, un vescovo di Cassano giunto a Maratea per la canonica visita episcopale, chiese ai fedeli del Castello come potevano esser certi che nella cassa – la quale non aveva aperture – ci fossero realmente le reliquie.

«A tale domanda – racconta Domenico Lebotti (1729-1797) – accesi di divozione verso il Santo quei Cittadini, il Parroco, ed il Clero, interrogate gli dissero, i nostri Maggiori, ed essi vi diranno, che quì in questa Urna riposano le sacre ossa del nostro caro Protettore, poiché noi, che abbiamo veduto con proprj occhi distillare dal marmo il sacro liquore, ben possiamo con tutta verità annunciare a nostri Posteri, ed attestare di aver toccato con mani quanto da maggiori è stato a noi tramandato, cioè che questa sacra Cassetta racchiude in se tesoro quanto nascosto, altrettanto inestimabile; i continui prodigj, le grazie straordinarie, che riceviamo dal Signore a intercessione del nostro Santo, ben ce lo danno a conoscere chiaramente, e ci confermano sempre più in una tale credenza. A che dunque andare in cerca di scritture, se ne’ nostri più disperati eventi riceviamo da lui sollievo, e conforto».

Certo, una genuina prova di fede… ma anche la prova che non c’erano documenti da esibire!

Di lì a poco, un altro vescovo ebbe la brutta idea di provare ad aprire la cassa a colpi di martello. E doveva essere un prelato piuttosto maldestro, perché quasi si cavò un occhio.

Il vescovo, «fattosi dunque venire un martello di ferro – racconta Paolo D’Alitti (1676-1728) – stimulato da soverchia, e curiosa devozione, percosse con quello la cassa, disegnando d’aprirla; ed ecco, che da una schieggia di quel sacro marmo restò egli percosso in un’occhio, e semiprivo di vista; non raveduto dell’errore, pensò co’l secondo colpo ottenere l’intento, e con nuovo miracolo ambe le braccia restarono stupidite, ed inabili al moto; né anche del suo fallo convinto con duplicati miracoli, ed attribuendo l’uno, e l’altro a causale accidente, ordina al Cappellano Curato della medesima Chiesa, che prosegua l’incominciata opera: quel Curato, ch’ogni giorno esprimentava le grazie del Santo, fermamente credea uscir tutte dalle Sacre ossa racchiuse in quell’arca, onde rivolto al Prelato, gli disse, che con gli occhi, adorava il Santo deposito, stimandosi temerario percuoter la cassa, ed aprirla, e che esso Vescovo dovesse riconoscer effetti del Santo tutto quel che gli era avenuto in quell’atto. Ravveduto il Vescovo, ricorse umilmente a domandarne al Santo il perdono, e raccomandandosi caldamente alle sue grazie, provò nuovi portenti, essendo nell’istesso punto ritornata la vista all’occhio, e il moto alle bracela, con suo grande stupore, e di tutti gli Astanti».

La ricognizione del 1941.

Al di là della narrazione leggendaria, se ci fosse o no qualcosa nella cassa rimase un mistero sino al 1941.

Il 3 maggio di quell’anno, a termine dei lavori di spostamento della Regia Cappella del santo dalla navata all’abside, venne spostata la cassa, per la prima volta aperta.

La ricognizione, condotta dal parroco Domenico Damiano (1891-1969) e dal vescovo Federico Pezzullo (1890-1979), accertò che nella casa, oltre al torace, giacciono un frammento del cranio, un osso del braccio e un femore del santo.

A perpetua memoria, nella cassa è stata lasciata una pergamena che ricorda date e circostanze della ricognizione.

Le reliquie esposte attraverso un cristallo.

Le reliquie rimasero anche esposte attraverso una lastra di cristallo di 16 mm di spessore dal 1941 al 1951. Nel novembre di quell’anno, poi, si richiuse ermeticamente per tema che la luce o altro potesse danneggiarle.

Ma dietro quella lastra, oggi, non c’è più alcun mistero.

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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