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Una breve storia di Maratea Castello

Già da qualche settimana, i turisti d’ogni parte d’Italia e d’Oltralpe gironzolano per la nostra Città. Soprattutto da coloro che sono giunti a Maratea per la prima volta, una domanda che spesso si sente fare è: cosa sono quei ruderi tra il Cristo e il santuario?
Ecco l’occasione per illustrare brevemente la storia di quella che fu la prima Maratea.

Il nome.

Il nome del luogo non è dovuto alla presenza di un vero e proprio castello, ma al fatto che l’antica cittadina era cinta di mura, aperte da sole due porte.

Castello non era però un soprannome, ma un nome vero e proprio, atto a distinguere questa Maratea dalla nuova, a valle, detta popolarmente Borgo. Nel linguaggio curiale, invece, erano in suo i nomi di Maratea superiore e Maratea inferiore, o Maratea di sopra e Maratea di sotto, a seconda dell’epoca.

Da circa 17 anni il cartello che indica il toponimo sulla cima del monte San Biagio reca la scritta Borgo Castello. Si tratta di un errore e di un’indicazione fuorviante, perché nella toponomastica storica di Maratea il nome Borgo ha indicato, come detto, l’altro nucleo del paese.

Maratea Castello

Non saprei dire come sia nato questo errore. È possibile che si sia voluto aggiungere il termine Borgo per richiamare l’immaginario turistico dei luoghi medievali e il loro fascino.

Anni fa scrissi un articolo sperando che si potesse cambiare il cartello odonomastico. Continuo a sperare.

In principio era il buio.

Non conosciamo con certezza né l’epoca né le ragioni della fondazione di Maratea Castello.

Confessare di non sapere è stata ritenuta una virtù da molti dei saggi vissuti negli ultimi duemila anni. Tuttavia, non è stata cosa molto in voga tra gli scrittori delle storie dei piccoli paesi d’Italia. Questi hanno più spesso preferito sbizzarrirsi nelle più disparate teorie per riempire i vuoti delle documentazioni.

Maratea Castello fotografata da un drone

Quelle riguardo Maratea Castello appartengono alla categoria più comune alla storiografia meridionale, e si può riassumere con la frase: «se non sai chi l’ha fatto, scrivi che l’hanno fatto i Greci».

Dalla costa al monte.

In realtà, le ricerche archeologiche hanno appurato che il territorio di Maratea non fu direttamente coinvolto nella colonizzazione. Sulla costa si insediò il popolo a cui gli storici antichi diedero il nome di Enotri, che commerciavano con i Greci, subendone fascino e influenza culturale.

Agli Enotri succedettero i Lucani, anch’essi abitanti principalmente sulla costa, e i Romani, che resero la costiera marateota un luogo di produzione e smercio di prodotti ittici. Il più famoso di questi, il garum, veniva prodotto anche sull’isoletta di Santo Janni.

L’isola di Santo Janni da finestra di una casa in zona Porta Santa Maria

Non sappiamo che ruolo avesse la cima del monte nell’antichità, perché qui finora non sono state condotte ricerche archeologiche. Durante il restauro delle mura di cinta superstiti, furono ritrovate un paio di monete romane d’età repubblicana. Si tratta però di reperti troppo effimeri per considerarle tracce di un abitato. Ancora da chiarire la possibile verità circa l’esistenza di un tempio di Minerva, di cui ho parlato in un altro articolo. Insomma, al momento agli studiosi sfugge che tipo d’insediamento potesse esistere quassù in quel periodo.

Successivamente, la crisi dell’Impero di Roma, le invasioni barbariche e il mutamento dei quadri economici del Mediterraneo portarono al progressivo abbandono delle coste e alla migrazione delle popolazioni verso l’entroterra. Vaste aree restarono disabitate, o almeno non continuativamente insediate, anche per interi secoli.

I primi segni di vita.

Per questa fase, i dati sono pochissimi. Sulla costa di Maratea, l’unica testimonianza lasciata fu una chiesetta con cinque sepolture, del VI o VII secolo, posta ancora sull’isoletta di Santo Janni.

La cima del monte si animò solo nel IX o X secolo. Ad allora risale un affresco, dipinto in una grotta posta poco sotto la vetta, detta Grotta dell’Angelo.

La grotta dell’Angelo

In quel periodo, i Bizantini al comando del generale Niceforo Foca (830 ca.-896 ca.) riconquistarono la Calabria e gran parte della Lucania, precedentemente prese dai Longobardi proprio a danno dei costantinopolitani. Per ripopolare e riassoggettare le terre riconquistate, gli imperatori bizantini incentivarono l’insediamento di schiavi affrancati e coloni di altre province, oltreché l’immigrazione di eremiti ed asceti da Calabria e Sicilia, quest’ultima conquistata poco prima dai Saraceni.

La prima volta nella Storia scritta.

Quella che potrebbe essere la più antica traccia del nome di Maratea nella Storia è contenuta proprio nell’agiografia di uno di questi eremiti: S. Elia lo Speleota (880-960).

Di questa agiografia esistono due versioni, una in greco e una in latino. In entrambe si racconta di come un certo Giorgio, monaco o eremita, fu guarito dal mal di denti con l’utilizzo di un coltello appartenuto a S. Elia.

Un “basso” di un’antica casa

Nella versione greca l’improvvisato odontoiatra fu un certo Carpo e il fatto collocato «έν τοις κρημνοίς τού Μαραθώνος». In quella latina al posto di Carpo c’è Luca di Armento (918-993) e si specificava che «Georgius nomine quidam erat monachus in civitate, que Malachia vocatur».

È facile immaginare che il luogo il cui nome suonava Μαραθώνος (leggi: «Marathònos») alle orecchie d’un parlante greco e «Malachia» a un parlante latino fosse proprio Maratea. Tuttavia non c’è certezza, perché molti toponimi della Calabria hanno una radice simile al nostro.

Più famosa è la menzione nella Bolla di Alfano I, arcivescovo di Salerno, con cui fu ricostituita la diocesi di Policastro, nel 1079.

Dal feudo di Maratea al Regio Demanio.

Tutti gli scrittori locali hanno vantato il fatto che Maratea sarebbe stata preservata da questo trattamento e non assegnata mai ad alcun feudatario. Ciò, però, non è vero. Sotto i primi sovrani normanni anche Maratea fu infeudata: il nome di Guglielmo di Maratea, che nel 1144 firmò una sentenza in favore del monastero di Carbone, è però l’unico dei feudatari sopravvissuto sino a noi.

I resti delle case in zona Capo l’Auria in una foto di inizio XX secolo

Poi, in un momento che le nostre conoscenze non permettono di precisare, Maratea fu incamerata nel Regio Demanio, cioè nel patrimonio amministrato direttamente dalla Corona.

Probabilmente fu perché ci rese conto che Maratea Castello era una fortezza dalla grande valenza strategica. Almeno così la considerò Federico II di Svevia, che succedette ai Normanni tra il 1198 e il 1250.

«Castrum Maratie reparari debet» – si legge in un documento della sua epoca – «per homines Maractie, Bianelli, Rotunde Vallis Layni, Castellucci, Lorie, Ayete, Turture, Castricucti, Pappasideri et Avene». Scomodare gli abitanti di tutti i paesi vicini, in Basilicata, Calabria e Campania, per la manutenzione del Castello di Maratea, è una prova oltremodo indicativa della sua importanza.

Un castello nel cielo.

«Quando era circondata di Muraglie, e Torrioni» – scrisse Carmine Iannini (1774-1835), l’ultimo parroco del santuario  a vederli in piedi – «faceva una bella, luminosa, magnifica comparsa». Non fatichiamo a credergli. Proviamo a immaginarla: una città murata sulla cima di un monte che, soprattutto dal mare, pareva appesa al cielo.

Tra il 1284 e il 1290 fu attaccata e assediata a più riprese: erano gli anni della Guerra del Vespro, combattuta tra gli Angioini, succeduti agli Svevi al trono di Napoli, e gli Aragonesi, stabilitisi in Sicilia. Su queste vicende mi riservo di scrivere più dettagliatamente in futuro.

Una torretta a base quadrata nei pressi di Porta dei Carpini

Nel 1344 la regina Giovanna I d’Angiò ordinò di mantenere in buono stato le mura di Maratea, considerandola tra le prime linee di difesa contro gli attacchi mossi dalla Sicilia.

Mura, porte e bastioni.

In realtà, non c’era molto da faticare. Le mura difensive erano state costruite solo nei punti in cui la conformazione del monte non era abbastanza ripida.

Il tratto più lungo, che è anche quello sopravvissuto sino ad oggi, si trova sul lato nord. Le mura sono alte otto metri circa e proteggevano dagli attacchi mossi dal sentiero che, nel bosco, scende direttamente verso l’attuale centro storico.

Le mura nord, restaurate nel 1987

Nel 2020 si avviò un progetto per rendere visitabile questo manufatto: ne accennai in un altro articolo. Ma gli eventi legati alla pandemia della Malattia da Coronavirus-19 bloccarono tutto.

Su questo lato si apriva Porta dei Carpini o Porta di Suso (cioè Porta di Sopra), che probabilmente si trovava rivolta verso ovest in un punto prossimo a dove ora esiste il viale che porta alla statua del Redentore.

L’altra porta, la principale, si chiamava Porta Santa Maria o Porta di Basso. Il primo nome deriva dalla vicinanza di una chiesa, il secondo dal fatto che era il manufatto più in basso di tutta la cittadina. Si trovava nei pressi di Palazzo Lebotti, edificio utilizzato fino a qualche decennio fa come casa canonica.

Palazzo Lebotti

Questa porta si apriva sul tratto di mura più corto, che non esiste più. Chiudeva il lato che dal burrone al di sotto delle abitazioni, detto Armu ‘i S. Filocu, sale verso lo sperone roccioso dove ora si trova il parcheggio retrostante al santuario.

Sono sopravvissuti due bastioni. Uno è quello del lato nord, al cui spigolo c’è una torretta merlata. L’altro, poco visibile a causa della vegetazione e dell’abbandono, è un terrazzamento sul bordo dell’Armu ‘i S. Filocu.

Quindi, la conformazione del monte e poche opere di fortificazione rendevano la cittadina praticamente inespugnabile.

Bella, ma non ci vivrei.

D’altro canto, però, la sua posizione non giovava affatto alla qualità della vita. La cima del monte è stretta e oblunga, protesa sul mare, per cui è frequente bersaglio dei fulmini e i venti, a volte, soffiano a centinaia di kilometri orari.

Particolare di un’antica casa

Lo spazio è limitato e fa freddo per la maggior parte dell’anno, per cui buona parte delle case aveva dimensioni ridotte, così da economizzare volume e dispersione del calore. Secondo Giovan Battista Pacichelli (1641-1695), che visitò Maratea Castello alla fine del XVII secolo, molte avevano una sola stanza. Ogni abitazione aveva cisterna e canaline per immagazzinare l’acqua piovana, perché quassù non ci sono sorgenti.

Insomma, Maratea Castello era senza dubbio bellissima a vedersi, ma probabilmente non ci avremmo voluto vivere.

La fortuna del Borgo, il declino del Castello.

Per piccola che fosse, anche Maratea Castello aveva una sua suddivisione in zone o quartieri. Dal catasto napoleonico, conservato all’archivio di Stato di Potenza, sappiamo si chiamassero Porta di Basso, Porta di Basso sotto via, Pianetto, S. Anario, S. Nicola, SS. Quaranta, Avanti la Chiesa, S. Maria, Cudetta e S. Angelo. Oggi siamo solo in parte in grado di localizzare questi nomi in ciò che resta del contesto urbano.

La tradizione storiografica paesana ha attribuito alle dure condizioni di vita della cima del monte, oltre che all’eseguità di spazio, la nascita della nuova Maratea, il cosiddetto Borgo, cioè l’attuale centro storico.

Nell’età moderna il nuovo centro crebbe esponenzialmente.

Il Castello e il Cristo fotografate da un drone

Non ci è ancora nota con precisione la serie di eventi che portarono Maratea a diventare un importante centro di commercio marittimo. Sta di fatto che, alla fine del XV secolo, la costiera marateota divenne il luogo da cui si esportavano le materie prime dell’entroterra lucano (per lo più legname, carni e prodotti caseari) e si importavano i prodotti lavorati a Napoli, principale, quando non unico, centro di produzione nel Regno.

Va da sé che questo nuovo assetto economico ridimensionò molto l’importanza del Castello. La cittadina sulla cima del monte conservò una certa valenza militare ancora nel XV e XVI secolo, ma la sua posizione frustrava ogni possibilità di beneficiare del nuovo modello economico.

C’è chi sale e c’è chi scende.

I rapporti di forza tra la vecchia e la nuova Maratea si rovesciarono ampiamente a favore della seconda. Nel 1532, il primo anno per cui disponiamo di un conteggio distinto tra le due Maratea, il Borgo aveva 297 fuochi (tra i 1.190 e i 1.780 abitanti) e il Castello solo 61 (tra i 250 e i 370 abitanti). Nel 1561, il Borgo arrivò a 487 fuochi (tra i 1.950 e i 2.920 abitanti) e il Castello a 77 (tra i 310 e i 460 abitanti). La disparità nella crescita è evidente.

Alcune case arroccate tra le zone Avanti la Chiesa e la Cudetta

Non si trattò solo di sviluppo demografico. Tra le due Maratea si creò anche una marcata distanza sociale.

«Perché la Gente Civile, e letterata» – scrisse nel XIX secolo Iannini – «parte si stabilì in Maratea inferiore, parte in Napoli, e parte altrove; […] rimase poi in Maratea superiore, la sola Gente bassa, la quale venne ad essere priva di educazione». L’ingenuità classista del vecchio parroco semplifica quello che senz’altro fu un problema reale. Immaginiamo facilmente che la parte più ricca della comunità, una volta confluita per la maggior parte nel Borgo, non potesse sopportare di sottostare all’amministrazione del Castello, dove viveva la parte più povera.

Due sindaci, due pesi e due misure.

Fu per questo che negli anni ’30 o ‘40 del XVI secolo si formarono due distinte Università (così si chiamavano le amministrazioni comunali), ognuna con il suo sindaco (una nuova carica simile a quella moderna) e funzionari, il suo bilancio e i suoi rappresentati alla Corona di Napoli e potere assoluto nei confini dei nuclei urbani di rispettiva competenza.

Una casa palazziata nella zona detta forse Pianetto

Il resto del territorio, detto territorio promiscuo, e i beni patrimoniali restarono in comune, amministrati con il criterio di assegnare al Castello la sesta parte di ogni entrata e uscita e al Borgo i cinque sesti.

Questa divisione era prettamente amministrativa: gli abitanti dell’una e dell’altra Maratea si percepivano come membri di una sola comunità. «Si fa certa, et indubitata fede» – giurava, l’8 gennaio 1670, Giuseppe Iaselli, sindaco di Maratea superiore – [che] questa predetta Università, con l’Università inferiore fanno una Maratea, ed uno territorio».

Ciononostante, proprio l’aspetto economico di questo sistema amministrativo innescò lo spopolamento di Maratea Castello.

Uno spopolamento… fiscale.

A raccontarci i fatti fu ancora il parroco Iannini.

«Le due Università, come si è detto, erano in territorio promiscuo» – iniziò a dire in una riunione del clero del 13 febbraio 1817. – «Questa promiscuità le fu’ a Maratea superiore di molto detrimento, e più cause vi concorsero per rovinarla. S’incominciò ad’avere per essa Maratea superiore un tedio. La Famiglia Ventapane, si stabilì in Napoli: quella di Armenio, di Lebotti, di Alasci, di Leo, di Fiorillo» – cioè quelle aristocratiche – «si estinsero, andarono altrove, caddero in bassa Fortuna. Ci restarono soltanto i poveri, e destinati alla Zappa per vivere. Si avvalsero all’occasione quelli di Maratea inferiore, e delle rendite universali, provenienti dalla Foresta del Carroso, ed altri corpi» – cioè i principali beni patrimoniali comuni – «e se ne approfittarono intieramente. Reclamò sempre Maratea superiore essere il territorio promiscuo, ma in vano; ed ecco che negli ultimi tempi, non avendo come sodisfare li pesi, vivevano a Gabbella, ed a Catasto; e Maratea inferiore vivendo solo a Gabbella colle altre rendite, non solo aveva in pieno, ma anche un non mediocre sopravanzo».

Il corpo principale di Palazzo Ventapane

Quest’ultimo fu il punto fondamentale della questione. In parole povere, Maratea inferiore, o Borgo, si manteneva interamente su imposte indirette basate sui consumi (le «Gabbelle»), facilmente scaricabili sui proventi del commercio. Invece, Maratea superiore, ossia il Castello, era costretta a imporre anche un’imposta diretta, che colpiva il patrimonio immobiliare e fondiario (il «Catasto»).

«Li naturali di Maratea superiore» – concluse il parroco – «per non pagare la Quota si scoprirono le Case in Città, si fabbricarono de’ Tuguri in Campagna, e mandarono a battezzare li Figli in Maratea inferiore».

La distruzione delle antiche case.

Quando Iannini diceva «si scoprirono le Case» non utilizzava un arcaico modo di dire che ora non riusciamo a comprendere. Stava parlando letteralmente.

Il modo per rendersi esente dal pagamento della tassa immobiliare era rendere la propria abitazione inabitabile. E la maniera più veloce per farlo era scoperchiarle, facendo crollare le assi del tetto. Le case di Maratea Castello non sono state tutte ridotte a rudere dalla corruzione del tempo: sono state consapevolmente demolite da coloro che per ultimi le abitarono.

Una casa “scoperta” al Castello

Insomma, l’antica Maratea resistette per secoli a guerre e carestie, terremoti e assalti, ma alla fine fu sconfitta dalle tasse.

E poi, l’assedio.

Poi, a dare un altro forte impulso allo spopolamento, ci fu l’ultimo grande assedio. Nel dicembre del 1806 Maratea Castello fu scelta dalle forze borboniche per opporre una resistenza disperata all’invasione napoleonica del Regno di Napoli. Al comando di Alessandro Mandarini (1762-1820), un commerciante marateota che si improvvisò guerrigliero, 600 irregolari resistettero per sei giorni e sei notti all’attacco di 4.500 soldati francesi.

Mandarini ottenne il massimo risultato realisticamente possibile: un’onorevole capitolazione e la salvaguardia della vita e delle proprietà di tutti.

Maratea Castello in una foto di inizio XX secolo

Ad avere la peggio furono le fortificazioni del Castello. Per evitare che altri potessero sfruttarle, il generale francese, Jean Maximilien Lamarque (1770-1832), ne ordinò la demolizione. In realtà, come detto in precedenza, furono demolite solo le porte e il tratto di mura sul lato sud.

Negli anni successivi all’assedio, al Castello resistevano ancora circa 130 abitanti. Lo stillicidio andò avanti per un secolo e mezzo circa, finché, nel 1969, morì l’ultimo abitante dell’antica Maratea: il parroco Domenico Damiano (nato nel 1891).

* * *

Le notizie edite e inedite di questo articolo sono tratte dagli archivi parrocchiale e comunale di Maratea, oltreché da molti anni di ricerche nelle biblioteche d’Italia e, in particolare, dai libri Pietre nel Cielo L’antica “terra” di Maratea nel secolo XVIII del prof. José M. Cernicchiaro. L’elaborazione di questo articolo è in larga parte il sunto di quel che sarà il primo capitolo di un mio lavoro sul santuario di S. Biagio, che a Dio piacendo sarà pubblicato nel 2024.

Gli appuntamenti del mercoledì con i miei articoli, iniziati a gennaio, finiscono oggi. Per ora. Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito e letto!

Nei prossimi mesi estivi ci sarà, forse, qualche sporadica uscita, per poi riprendere, con nuovi articoli e un nuovo progetto su internet, in autunno. A presto!

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.