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C’era una volta il Porto di Maratea. Storia della frazione nell’età moderna (XV-XVIII sec.)

Questo articolo apparve sul sito ‘U Funnicu nel 2015.
Lo ripropongo qui, integralmente e senza modifiche, in vista di un futuro percorso lungo la storia particolare delle frazioni del comune di Maratea.

La ricostruzione dell’ambiente, naturale e antropico, di un territorio nel passato è un passaggio fondamentale nello studio storico. Tuttavia, la complessità della materia, la scarsezza delle fonti e – bisogna anche dire – i non sempre giustificabili tecnicismi all’interno dei testi rendono questi studi poco appetibili alla dimensione divulgativa, e, quindi, più vicina ai “non addetti ai lavori”.
Per la natura di questo contributo e la sua destinazione, quindi, cercheremo di allontanarci il più possibile da questi intralci, anche se vorrà dire rinunciare alla perfetta correttezza della forma.

Com’era il Porto di Maratea nel passato?

Il primo errore in cui è facile incappare nell’affrontare quesiti come questo è quello di appiattire la dimensione del passato in un’unica, grande e indefinita epoca del “c’era prima”. Il passato non è una dimensione temporale unica, ma una serie di dimensioni che, per nostra comodità di studio, suddividiamo in epoche convenzionali con date d’inizio e conclusione. Non di tutte quest’epoche abbiamo fonti dirette – cioè le notizie del passato giunteci dal passato – e a volte capita, per i crucci del destino, di poter avere notizie più dettagliate di un’epoca lontana 300 anni fa e notizie più imprecise su d’una lontana solo 150.

Il Porto di Maratea, inteso non tanto come approdo di cabotaggio, ma come centro abitato, frazione del comune di Maratea, sembra apparire per la prima volta nella storia scritta in una carta geografica aragonese del tardo XV secolo. In queste carte, lungo la costa di Maratea, appare disegnato il Casale del Corbo, quasi certamente una storpiatura di Porto dovuta a un errore di trascrizione.

Che in questo punto della costa marateota fosse già apparso un casale – cioè un raggruppamento di edifici, non necessariamente adibiti ad abitazione – non deve stupire. L’apertura della vita della comunità di Maratea al mare era, in quel periodo, già avviato. Grazie al “privilegio di dogana” del 1496, con cui Federico d’Aragona (re di Napoli dallo stesso 1496 al 1501) esentava i marateoti da ogni tassazione per le merci vendute o comprate dentro il regno, Maratea si apriva a una nuova vita economica, in cui l’approdo del Porto risultava perno fondamentale.

Dopo la caduta dell’ultimo aragonese e la conquista spagnola del napoletano, conclusasi nel 1503, Maratea prosegue, pian piano, questo cammino. Un documento spagnolo del 1531 ci dice che «en Marathea era fondiguero con privilegio del rey n. s. Iohan Iacobo Rocha e porque en dicha terra el rey nuestro tiene la gabella nova […] es dado cargo al dicho Iohan Iacobo que recoga tanto las dichas razones de la gabella nova e fondigo como exercita el oficio de credenciero del fierro en dicha tierra considerado es arredado dicho fondigo e el fondiguero lo diputarà el arredator e al dicho credenciaro se lo podrà dar la misma provissòn que tiene por causa del oficio de fondiguero que es duc. XXXXVIII». Questa testimonianza ha molta importanza perché segna la prima apparizione documentata di alcuni istituti, il fondaco regio e il fondaco del ferro, che per secoli saranno fonte di ricchezza per Maratea. Il primo, posizionato, tra l’altro, nella piccola spiaggetta presso Filocaio, era deposito delle merci sottoposte a tassazione reale; il secondo, posto nella piazza di Maratea, era uno dei pochi luoghi dove si potevano vendere ferro e acciaio, entrambi monopolio dello stato, estratti in Calabria o all’estero.

Se nel XVI secolo questi istituti erano ancora direttamente alle dipendenze della corona – nel documento sopracitato abbiamo anche notizia che il credenciaro poteva percepire al massimo 48 ducati di provvigione – nel successivo XVII secolo, per l’acuirsi della crisi economica della Spagna e delle sue dipendenze, questi uffici vennero venduti in arrendamento, cioè appalto perpetuato quando non perpetuo, a privati. Per Maratea, troviamo che tra il 1652 al 1675 si avvicendarono ben otto maestri portolani e fondacari, cioè Juan Baptista Greco, Miguel Angel Fiorillo, Miguel Angel Vacaverat, Antonio de Armenio, Francisco Ventapane, Carlos de Biasse, Antonio Capuani e Juan Pedro Pesce.

Non soltanto gli uffici del regno vennero posti in vendita, ma anche, nel commercio marittimo, le rotte stesse! Da un documento dell’archivio di Stato di Napoli sappiamo, per il 1667, che le tratte di «seccamente, & salume, & altre robbe ed Seccamente, che si concedono estrahere dalle provincie di Terra di Lavoro, Principato citra, Calabrie citra & ultra, & Terra di Maratea di Basilicata per extra Regno» erano vendute all’asta per la ragguardevole cifra 5.310 ducati.

La funzione commerciale di Maratea, infatti, consisteva principalmente nell’essere lo sbocco marittimo dei prodotti agricoli (specie grano e granone), armentizi (specie formaggi e salumi) e legna verso i porti franchi del Tirreno, come Messina, Civitavecchia e Livorno, ma principalmente verso Napoli, città già all’epoca cresciuta a dismisura nel panorama del regno (nel XVIII secolo divenne la quarta città più popolata d’Europa!) e che aveva costante bisogno di essere “rifocillata” dai prodotti delle province, garantendo ai paesi, come Maratea, con la fortuna di essere “di strada” verso la metropoli, grazie al mare, di arricchirsi con la vendita di quei prodotti. Un chiarimento occorre però: le merci imbarcate a Maratea non erano necessariamente prodotte nel territorio marateota. Anzi, la maggior parte di questi – principalmente il grano, granone e la legna – non lo era affatto: Maratea funzionava unicamente da tramite, gran parte di queste produzione proveniva dai paesi interni di Basilicata, Cilento e Calabria cosentina.

I portaioli.

Il secondo errore, ben più grave del primo, in cui si può incappare studiando la storia di un territorio, è quello di trasportare metri di valutazioni o lanciarsi in confronti sul (presunto) grado di sviluppo di quel territorio in epoche diverse, celebrando ingenuamente le sconosciute (e presunte) ricchezze del passato in antitesi con le difficoltà, note a tutti, del presente. Potremmo esser tentati – come a volte si è fatto – di vedere nel passato di Maratea ricchezze favolose solo per questo motivo. Ma, analizzando i dati con criterio, ci accorgiamo che anche solo contestualizzandoli nell’epoche a cui appartengono, questa impressione scompare. Che in un paese di provincia come Maratea, quattrocento anni fa, esistessero istituti privati o statali oggi non più presenti non vuol dire alcunché di diverso che il percorso della storia, con l’evoluzione delle comunicazioni e dei trasporti, ha portato a un accentramento della burocrazia e dei servizi dalla periferia al centro degli organismi statali.

Se fino al XVII secolo non abbiamo altri dati sul Porto che quelli, più generali, sul movimento commerciale, per il XVIII secolo una straordinaria fonte ci permette di disegnare un quadro, piuttosto preciso, di come poteva apparire l’abitato.
Compilati nel 1753, i catasti generali voluti da Carlo di Borbone (re di Napoli dal 1734 al 1759) segnano per ogni famiglia vivente nei paesi del regno napoletano la composizione e gli averi, mischiando i dati che oggi troveremmo in un catasto e in un censimento.

Al Porto troviamo segnate appena due case, entrambe non abitate, una di proprietà di Carlo De Lieto, all’epoca portolano, e l’altra di Clemente Maria Lombardi, anche lui notabile del paese. Seguono tre casaleni, uno del marinaio Macario Mandarino, uno del barone Nicola Dal Verme e uno del nobile napoletano Emanuele Di Cesare. Poi sono segnalati tre magazzini, uno di proprietà di Giuseppe Maria Ginnari, uno di Raffaele De Santis e uno di Dalmazia Armenio fittato a Biase Cacace, marinaio. Al Porto, quindi, non esisteva una struttura abitativa, ma una serie di edifici al servizio delle attività di cabotaggio e di pesca. Esaustivo, in questo senso, notare che tutti i marinai dell’epoca, vivessero con le famiglie in quello che oggi chiamano il centro storico di Maratea!

I marinai a Maratea riportati nel catasto erano:

• Biase Di Giacomo, di 35 anni, viveva, con moglie e tre figlie, presso la chiesa dell’Annunziata;
• Domenico Antonio Brando, di 65 anni, viveva con cinque figli al Tocco;
• Felice Cantasano, di 46 anni, viveva con moglie e cinque figli a Capo Casale;
• Filippo Zaccaro, di 45 anni, viveva con la madre, la moglie, quattro figli e due fratelli al Gafaro;
• Francesco Zaccaro, di 50 anni, viveva con moglie e tre figli (di cui uno, Giovanni Giacomo, di 21 anni, anch’esso marinaio) in affitto in casa dei Signori Santoro;
• Giuseppe Raeli, di 53 anni, viveva con moglie e cinque figli (di cui uno, Francesco, di 20 anni, anch’egli marinaio) a S. Francesco de’ Poverelli;
• Macario Mandarino, già citato, di 50 anni, viveva con moglie e sette figli, in una casa al Palazzo;
• Antonio Cacace, di 64 anni, viveva con la cognata e due figlie presso la chiesa dell’Annunziata;
• Biase Cacace, di 60 anni, viveva con la moglie e quattro figli in affitto dai Signori Ginnari-Satriani.

Altri marinai erano poi originari di altri paesi, cioè:

• Biase Fornaro, originario di Ischia, di 50 anni, viveva con moglie e due figli all’Arenaria;
• Biase Meo, originario di Massa Lubrense, di 35 anni, viveva con la moglie e il fratello Saverio (30 anni, anche lui marinaio) in una casa davanti la Chiesa Madre;
• Carmine Antonio Pignataro, aietano, di 25 anni, viveva con la moglie in una casa al Casaletto;
• Costantino Garzo, originario di Vietri sul Mare, di 36 anni, viveva con la moglie e sei figli presso la chiesa dell’Annunziata;
• Giovanni Santoro, originario di Lipari, di 28 anni, viveva con sua madre, la moglie e due figli e suo fratello in affitto da Alessandro Mandarini (nonno del colonnello omonimo) in una casa al vicolo Dietro il Trappeto;
• Liberato Ferola, originario anche lui di Massa Lubrense, di 50 anni, viveva con moglie, due figlie, suocera e un figlio ammogliato in una casa alla Prazza di Sopra;
• Lelio Cifune, di Vibonati, di 62 anni, viveva con la moglie, tre figli e quattro nipotini (e nuore) in casa d’affitto dei Signori Di Roberto;
• Pasquale Ferrero, napoletano, di 47 anni, viveva con madre, moglie e figlio in casa d’affitto presso la chiesa dell’Annunziata.

Ancora nel 1792, quando il padre della statistica, Giuseppe Maria Galanti, visitò Maratea, il Porto appariva «luogo angustissimo, e noi vi trovammo molte feluche e barche tirate sull’arena. Vi sono poche case, e da questo luogo per passare a Maratea il cammino è erto e malissimo selciato».

Sarà soltanto con il XIX secolo che il Porto, così come Acquafredda, Cersuta, Massa e Brefaro – le prime frazioni di Maratea a prendere forma – iniziò a popolarsi stabilmente, grazie al trasferimento in loco delle famiglie che lì possedevano terre e le poche casette. Furono principalmente i ceti più umili a popolare campagna e villaggi di Maratea, dato da tenere a mente per capire le manifestazioni di campanilismo, simili a quelle che si vedono nei villaggi delle campagne dell’Italia centrale come, ancor più, in Toscana ed Emilia, e che oggi, come quelle, sono state falcidiate da una migliore istruzione nelle nuove generazioni. Il ricordo degli antenati, infatti, scomparve presto. Poterono nascere così singolari miti sull’origine di quei centri abitati: è ancora vivo l’epiteto di saraceni per i residenti nella frazione Porto, forse originato da qualche fantasiosa ricostruzione, oggi dimenticata, dell’origine del villaggio!

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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