La chiesa di S. Vito a Maratea
Oggi 15 giugno si commemora S. Vito, a cui è dedicata quella che lunga tradizione vuole sia stata la prima chiesa costruita nel centro storico di Maratea. Nascosta tra le fratte dei Carpini, si trova nel punto più alto di Capo Casale, che a sua volta è il punto più alto del paese, è una chiesa piccola e discreta.
La tradizione storiografica.
In quasi tutti gli studi in cui è menzionata, la chiesa di San Vito è ricordata essere stata la prima chiesa del centro storico.
Lo storico non ha alcun elemento per mettere in dubbio questa tradizione. L’epoca della sua costruzione, però, non è mai stata registrata – o almeno non è pervenuta fino a noi – perciò è da sempre oggetto di supposizioni, che intrecciano e influenzano quelle fatte sull’epoca di fondazione del Borgo stesso.
Nel suo racconto storico su Maratea, Carmine Iannini (1774-1835) immagina che il Borgo fosse antichissimo, nato due secoli dopo il completo sviluppo del Castello (che sarebbe stato, per lui, opera dei «Greci Enotriani»). Ricevuta quindi la libertà di culto da Costantino, i fedeli marateoti, dopo le chiese del Castello, avrebbero edificato «una soccorsale in Maratea inferiore, sotto il titolo di S. Vito Martire, ad implorarne il patrocinio contro la rabbia delle Belve, e Rettili, de’ quali era pieno il Bosco, ch’esisteva dove oggi è Maratea inferiore»
Molto più cauto con le date è Biagio Tarantini (1864-1928). A lui «sembra che l’edificazione di Maratea inferiore avvenisse tra il 1000 o il 1100» e che quando «i Marateoti di suso cominciarono a costruire le loro case al luogo detto Capo Casale […] edificarono la parrocchia di S. Vito». La cronologia di Tarantini sarebbe stata accettata anche da Domenico Damiano (1891-1969) e, nel primo periodo dei suoi studi, dal prof. José M. Cernicchiaro (1949-2010).
Successivamente, le ricerche di Biagio Cappelli (1900-1991) attirarono l’attenzione degli studiosi sulla presenza di monaci ed eremiti di rito greco lungo il confine calabro-lucano. Proprio il prof. Cernicchiaro, facendo propri gli spunti di Orazio Campagna, nella seconda epoca delle sue ricerche su Maratea individuerà nei cosiddetti «basiliani» gli artefici di molte delle strutture religiose più antiche di Maratea. E «anche la chiesa di S. Vito», secondo Cernicchiaro, «presenta tutte le caratteristiche per essere catalogata tra le strutture realizzate dai monaci basiliani».
Mentre per altre chiese e cappelle la teoria «basiliana» è stata accolta in pressoché tutti gli studi successivi, per San Vito sembra esserci stata resistenza, dovuta, probabilmente, alla forte e secolare tradizione di prima chiesa del centro storico di Maratea. La distanza interpretativa, infatti, non è da poco: se consideriamo quella di San Vito la prima chiesa costruita degli abitanti del Borgo per avere un luogo dove pregare, dobbiamo necessariamente intendere che prima sia nato l’insediamento e dopo la chiesa. Caso espresso da Campagna e lasciato tra le righe da Cernicchiaro, il rapporto si inverte se consideriamo San Vito un insediamento eremitico «basiliano», caso di studio che non pare essere stato gradito agli studiosi locali per i problemi di datazione che comporta.
Al momento attuale della ricerca lo storico non ha elementi per preferire una interpretazione all’altra, potendo benissimo la chiesa di San Vito essere stata costruita per marcare un punto di passaggio forzato del percorso che dal Castello andava al Porto, e aver catalizzato intorno a sé il nuovo insediamento del Borgo, quanto essere stata, più semplicemente, costruita per servire i bisogni dei fedeli dell’insediamento già nato.
Le tracce di storia.
A giudicare dall’aspetto architettonico, la chiesa potrebbe essere stata costruita nel XI o XII secolo. L’architettura interna, con la pianta rettangolare a navata unica, la volta a crociera e il superstite rigonfiamento esterno del catino absidale e l’arco a sesto acuto, tuttavia, sono elementi che caratterizzano anche parte dell’architettura dei secoli successivi.
Gli affreschi superstiti all’interno sono invece stati datati dagli storici dell’arte al XV e XVI secolo.
Finalmente, i documenti.
Per trovare dei documenti sulla storia di questa chiesa bisogna attendere il verbale della visita episcopale del 19 giugno 1601. Il vescovo annotò come San Vito «ex traditione habet erat matrix ecclesiae dette terre». La chiesa all’epoca aveva «duo altaria», sul maggiore già «ad pariete est pitta Imago B. Marie Virginis in medio SS. Viti, et Blasÿs», affresco tuttora esistente ma quasi monco dell’immagine della Madonna. Nella successiva visita del 1603 si aggiunge che davanti l’altare maggiore c’era un «cancellis ligneis, in cuius semitate adest trabs ligneus in quo stat cruse est imagine Crucifixi», mentre l’altro altare era abbellito con una «de pitta imago Sancti Viti».
Nel 1601 nella chiesa venivano celebrate «quatuor missas singulis hebdomatis pro animabus quondam Alphonsi Marote, benefactor pro quibus Clerus Santae Marie Maiori». Nel 1614 le messe erano calate a due alla settimana con «annous ducatos otto» e così è riportato anche nei verbali delle visite del 1661 e del 1678.
Evidentemente, però, questa rendita non bastava alla manutenzione della chiesa. Nel verbale della visita del 23 febbraio 1683 il vescovo visitatore registrava la chiesa di San Vito «diruta et suspensa». Lo scarso interesse del clero di Santa Maria Maggiore a manutenere la chiesa può essere spiegato con
il fatto che era tutta l’area di Capo Casale a trovarsi, già dalla fine del XVII secolo, in uno stato di abbandono dovuto alla sua progressiva periferizzazione nella vita del Borgo di Maratea.
Sono molto evocative, in questo senso, le parole di Giovan Battista Pacichelli (1641-1695), che nella sua visita di Maratea ricorda di aver visto «fabriche [sic] disfatte, frà le quali la Chiesa picciola [sic] di S. Vito».
La chiesa venne rimessa in sesto nei primi anni del secolo successivo. Nella visita episcopale del 17 gennaio 1705 il vescovo «visitavit cappella S. Viti filialem» e, trovato tutto in ordine, «permisit in ea Celebrari». Lungo il corso del XVIII secolo la chiesetta si manteneva con le offerte dei fedeli, come attesta la visita episcopale del 1746, secondo cui a San Vito «celebrant ex devotione».
L’Ottocento.
Nel corso del XIX secolo è la famiglia Calderano a prendersi cura della chiesa. Nella relazione del luogotenente vescovile Ottavio Rossi del 15 giugno 1830 si dice che la chiesa di San Vito era «in buono stato, per cura, e divozione de’ Signori Calderano»; all’epoca la chiesa aveva «due Altari decentemente ornati; una Sepoltura, e la Sagristia», la quale, essendo tuttora visibile quale corpo aggiunto alla struttura originaria, doveva essere stata costruita in questo lasso di tempo insieme, forse al campanile.
Ma le cure devote non bastavano. Già nella successiva visita del 1846 si notava che la chiesa aveva «bisogno delle riparazioni al tetto», la parte di struttura a cui, appunto, meno si poteva venire incontro con le estemporanee cure dei custodi.
L’isolamento dovuto al fatto che Capo Casale si andava sempre più spopolando e il conseguente poco uso fecero sì che la chiesa venisse eletta a camposanto provvisorio insieme a S. Francesco di Paola negli anni ’50 del XIX secolo.
Utilizzata per lo più per le sepolture, la chiesa si diroccò nuovamente ed ebbe bisogno di un restauro per interessamento del parroco Luigi Marini (1814-1906). I lavori si ebbero tra il 1883 e il 1889, e a questi risale l’attuale piccolo campanile.
San Vito bene artistico e storico.
Le persone oggi più anziane di Maratea ricordano la chiesetta semidistrutta. Così appariva fino a qualche decennio fa.
L’isolamento e lo spopolamento del quartiere circostante, da secoli non più rispondente alle esigenze abitative moderne, ha marginalizzato la chiesa tanto da farla quasi dimenticare.
Nel 1975 il sovrintendente prof. Iusco scriveva della chiesa: «attualmente è in totale abbandono, con paurose lesioni e le travate del tetto in disfacimento, in pericolo di crollo. Nell’interno è stato svuotato di ogni suppellettile, anche la campana è stata asportata».
È noto che la chiesa venne restaurata tra il 1979 e il 1980 dagli organi competenti, ma fa piacere ricordare che ciò fu possibile perché, nell’agosto del 1976, il parroco Amedeo Maccacaro (1929-2001) dei Padri O.M.I., e alcuni fedeli di Maratea, improvvisatisi operai, con non pochi sacrifici personali prestarono il loro lavoro per ricostruire il tetto, impedendo alla chiesetta di divenire un rudere senza forma.
A differenza di tutti le altre – come abbiamo visto, frequenti – volte in cui la chiesa diroccò e venne ripristinata, quella del secolo scorso ha una valenza particolare: non si trattò di un lavoro aristocratico, ma, seppure coordinato dal parroco protempore, di un’iniziativa popolare. Un segno, questo, della cultura del bene comune e della comunità (che rappresentano i migliori lasciti della seconda metà del XX secolo ai posteri) ormai diffusosi e che si concretizza in atto per salvare una gemma del nostro patrimonio artistico e storico.