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I quattrocento anni dei Cappuccini. Riflessioni d’arte, storia e turismo

In questo 2015 non cade soltanto l’anniversario del 50° della statua del Redentore. Quest’anno compiono anche 400 anni il convento e la chiesa di Sant’Antonio ai “Cappuccini”, oggi aperto per i festeggiamenti del santo portoghese.

E vi dirò perché è importante ricordarlo.

La vigna dei fratelli Bono.
Quattrocento anni fa lì c’era una vigna. Una grande vigna, nel Seicento, non significava che tutto quel tenimento di terreno fosse dedicato solo alla viticoltura. Quando troviamo registrata la dizione “vigna” in un atto del Seicento (come ancora del Settecento) dobbiamo immaginare un appezzamento di varie colture dominate dalla vigna lasciata crescere attorcigliata ad altre piante fruttifere.
Il 24 agosto 1615 i signori Orazio Giordano, Giovanni Camillo Greco, Fulvio Assafris, Francesco Greco e Rev. Giovanni Giacomo Bengivenne – procuratori preposti – costituiti davanti al notaio Giovanni De Pace fanno atto di copra dai fratelli don Antonio e Ovidio Bono per la somma di 100 ducati per la loro vigna in contrada Santa Maria di Loreto, che, con la costruzione del nuovo convento, sarà poi chiamata Cappuccini. Il precedente nome derivava dall’intitolazione di una di quelle che ora chiamiamo Cappelle ai Cappuccini.
Il finanziatore e ideatore dell’opera è Giovanni Antonio De Pino, commerciante e filantropo di Maratea, morto verso il 1614 dopo aver disposto un consistente lascito a favore della comunità per la costruzione di tre nuovi conventi: uno è questo, gli altri due sono quello di San Francesco di Paola (costruito poi nel 1616 su una preesistente chiesa dedicata a San Leonardo) e quello delle Donne Monache, venuto alla luce solo nel secolo successivo, dopo un travagliato destino. Ironia della sorte, oggi l’istituto che porta il suo nome è ospitato nell’unico monastero che il De Pino non fece costruire!

Arte misconosciuta.
Iniziata nel 1615, la chiesa sarà consacrata solo vent’anni dopo. Nel 1634 veniva dichiarata completa la costruzione del complesso con l’edificazione delle mura di cinta del convento, la posa della libreria dei frati e la collocazione del polittico sopra l’altare maggiore.
Questo quadro è qualcosa di stupendo. È un’opera d’arte che prende posto non solo tra i quadri più belli di Maratea, ma anche di tutto il patrimonio sito nei confini regionali… e forse anche oltre essi.
L’autore purtroppo non si conosce. La tavola centrale rappresenta la Madonna in Gloria tra Sant’Antonio Abate e Sant’Antonio di Padova. Ai due lati di questo si vedono raffiguranti Santa Rosa e Santa Chiara (dipinti su tavola), San Francesco, San Domenico, l’Eterno Padre, Sant’Agostino e San Michele Arcangelo (dipinti su tela). I dipinti secondari sono separati dal principale da lesene aggettanti, riccamente lavorate in legno.
Tutto poggia sull’altare maggiore, realizzato in marmo nero, unico esempio del suo genere nel patrimonio artistico di Maratea. Appena messo piede in chiesa, il colpo d’occhio del complesso (polittico ligneo, dipinti e altare) è notevole.
Se per magia si potesse prendere questa chiesa e trasportarla di peso in una qualunque regione d’Italia ad una latitudine più a nord del Lazio, troveremmo la foto di questo quadro su qualche libro di storia dell’arte. Ma, purtroppo, l’arte lucana non sembra meritare tanto.

La navata che manca.
Superato il colpo d’occhio dell’altare maggiore si nota qualcosa di strano. La chiesa è asimmetrica. Realizzata con tre navate, oggi ne ha solo due. La navata laterale sinistra, infatti, venne inglobata nel convento in epoca imprecisata per formare un corridoio laterale del chiostro. Oggi forma l’ingresso del Centro Misto della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali, qui ospitata dal 1993.
Tutti i restauri della chiesa – gli ultimi sono finiti nel 2002 – hanno rispettato questa stratificazione storica e hanno lasciato invariata la strana conformazione architettonica del tempio.

La storia di Maratea (e non solo) è passata di qui.
I cappuccini hanno abitato il convento per duecentotrentadue anni. E ne hanno passate di tutti i colori. Nella visita del 1650 leggiamo: «Il convento di frati minori cappuccini di Maratea, della provincia di Basilicata, sta situato in loco aperto, non molto lontano dalle mura della terra [cioè i confini della città] et alcuni passi distanti dalla strada pubblica. Sta congionto con l’horto, e fu fondato l’anno 1634 in circa, con il consenso dell’Ordinario vescovo di Cassano, ad istanza de’ popoli, et fabricato secondo la povera forma cappuccina, con sidici celle.» Ma gli inquilini sono solo dieci: «Li frati che stando in questo loco di Maratea sono dieci, ciò è sacerdoti: frat’Aliberto da Launegro, fra Agostino da Launegro, fra Cherubino da Launegro; laici: fra Cosimo da Gifuni, fra Bernardo da Maratea, fra Giuseppe da Sassano, frat’Egidio della Abriola.»
Nel 1806 i frati che abitavano il convento vennero derubati e riempiti di botte da una colonna della truppa francese arrivata ad assediare il Castello.
Nel 1828 si consumò una tragedia anche peggiore. Di fronte la porta della chiesa la nostra attenzione cade su una lapide sotto il centrale tra gli archi che adornano il muro di un terrapieno. Parla di un certo Carlo da Celle. Chi era?
Al secolo Carlo Guida, nato ventotto anni prima a Celle Bulgheria, era il custode del convento di Maratea. Suo zio, Antonio De Luca, fu celebre carbonaro del Cilento e protagonista dei moti antiborbonici del 1828. Anche suo nipote volle seguirlo. Ma gli costò la vita.
Racconterà lo storico Matteo Mazziotti (1851-1928): «Il supplizio dello sventurato cappuccino era stabilito in Maratea: ma bisognava prima dissacrarlo come si era fatto per il canonico De Luca. Il maresciallo, per non incontrare difficoltà, scrisse amorevolmente e prima della condanna, come egli stesso narra, al vescovo di Policastro per pregarlo di tale ufficio e gli mandò la lettera per mezzo del capitano Carrabba in Lauria, ove il prelato si trovava. Questi rispose il dì 8 agosto al capitano di essere pronto a compiere la funzione. Difatti, recatosi appositamente a Maratea, dissacrava, nel locale della congregazione dell’Immacolata Concezione, il cappuccino con le formalità determinate dal rito. Indi un plotone di soldati, nello stesso giorno 12 agosto, fucilava a le spalle, innanzi la porta del convento di Maratea, il padre Carlo da Celle, assistito, per i conforti religiosi, da i sacerdoti F. A. Mordente e Daniele Farachi. Il cadavere ebbe sepoltura nella chiesa dello stesso convento.»
I frati abitarono il complesso fino al 1866, anno di emanazione delle leggi eversive e della liquidazione dei patrimoni ecclesiastici da parte del neonato Regno d’Italia. La struttura, quindi, divenne nel 1869 la sede di un convitto, il Mario Pagano, poi si pensò di trasformarla nella sede del municipio e delle scuole elementari (proposito mai realizzato). Successivamente, nel 1905, una nuova scuola si insediò qui: fu il Convitto Lucano del prof. Antonio Schettini. Trasferitosi questo nel nuovo palazzo fatto costruire appositamente da Giovanni Schettini – oggi sede del municipio – l’ex convento dei Cappuccini venne preso in affido dalle sorelle di Nostra Signora del Monte Calvario per farne un orfanotrofio, destinazione perpetrata fino ad epoca recente.

Nascosto dietro la serratura.
I 400 anni che cadono in questi mesi racchiudono tutto questo.
In un film che ho apprezzato relativamente, La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, c’è una scena che ben ritrae certe nostre realtà: avete presente quando Stefano, il personaggio interpretato da Giorgio Pasotti, sfoggia la misteriosa borsa in cui conserva le chiavi per accedere a tutti i palazzi e le bellezze inaccessibili di Roma?
È una bella metafora che serve a farci riflettere su tutti tesori che nascondiamo dietro il buco di una serratura, autentici patrimoni buttati sotto il proverbiale materasso. La chiesa dei Cappuccini di Maratea è una di queste. E, a Maratea come in uno qualunque degli ottomila e novantadue comuni italiani, non ce n’è di certo una sola!

Attrattori e banchi di scuola.
Il concetto di «grande attrattore» è uno dei più recenti sofismi della politica dei politicanti nostrani. Per dirne una, poco lontano da Maratea, a Senise, è stato progettato e finanziato nientemeno che un gigantesco anfiteatro da 2.500 posti in cui, in un proscenio fatto da uno specchio d’acqua, si inscenerà uno spettacolo dal titolo La Magna Grecia. Il mito delle Origini – Il grande racconto dei Greci in Occidente. Il tutto in una ridente cittadina che dal mar Jonio (e dalla Magna Grecia) dista modestamente 35 km (in linea d’aria).
Un racconto già noto: un grande investimento pubblico che finirà ad una impresa del nord (il vincitore dell’appalto è un gruppo di Parma) e a cui le scarse finanze locali non potranno mai e poi mai assicurare la gestione.
In Basilicata e – per quello che ci riguarda da vicino – a Maratea di «attrattori» ne abbiamo diversi. Uno è un autentico «grande attrattore» e ne festeggeremo domani il 50° anniversario. Gli attrattori – esclusa la natura e il nostro mare meraviglioso, si capisce – sono quel patrimonio polverizzato in tante chiesette e cappelle. Prese da sole, nessuna vale la più scrausa chiesa di Firenze, certo, ma messe insieme sono una testimonianza di quell’incontro di arte, storia e costume che si usa chiamare cultura.
E mentre l’uomo della strada si incaponisce a dare la colpa a «loro» (quelli lì che comandano, per capirci) e «quelli lì che comandano» (quelli che a vari livelli gestiscono la cosa pubblica, per capirci) si premurano di dar la colpa al passato e assicurare tempestivi rimedi, la strada da percorrere rimane imbattuta. Perché la politica non deve ingegnarsi per fare uno di quei progetti che getta migliaia di euro dalle casse di un ente pubblico all’altro, ma solo sforzarsi di assicurare che questa cultura – che ha la sola sfortuna di esser nata troppo a sud! – entri nel patrimonio collettivo a livello nazionale.
Il turismo del nostro territorio non va inventato, va soltanto scoperto.
Qualche pagina di manuale scolastico di storia dell’arte su Simone da Firenze e Domenico De Blasio o su Gaetano Cusati e Bruno Innocenti; qualche passaggio sui libri di storia sui patrioti meridionali (che non valgono di meno dei confratelli settentrionali) varrebbero di più di cento milioni di euro di fondi europei!
E però, che fatica sarebbe poi far la cresta sui banchi di scuola…!

P. S.: auguri carissimi a tutti coloro che portano i nomi Antonio e Antonietta. E, tra tutti, un augurio particolare a mio padre Tonino.

 

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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