21 maggio 1676 – L’assedio dei briganti a Maratea
Oggi 21 maggio cade l’anniversario di uno dei meno conosciuti episodi di storia marateota: l’assedio dei briganti.
Il problema della data.
In questo giorno del 1676 un’orda di centosessanta banditi assediò le strade e i vicoli di Maratea in un’efferata battaglia urbana durata diverse ore. Il ricordo del traumatico evento perdurò per molti decenni nella memoria collettiva dei marateoti, ma poi, per essersi perdute le – semmai esistite – memorie manoscritte dell’episodio, se ne perse la traccia. Tantoché, le poche opere che lo ricordano, neanche concordano sulla data precisa. Per Giambattista Pacichelli (1634-1695), che di Maratea parla nel suo Il Regno di Napoli in prospettiva, edito postumo nel 1703, l’assedio sarebbe avvenuto il 21 maggio 1647; per Biagio Tarantini (1864-1928) e Domenico Damiano (1891-1969) il 21 maggio 1676; nel testo della edizione del manoscritto di Carmine Iannini (1774-1835) il 21 maggio 1626.
In ogni caso, possiamo concordare, senza ragionevole dubbio, che l’episodio avvenne realmente nel 1676. La memoria pervenutaci grazie al Iannini ci dice che quel 21 maggio cadde di giovedì, e solo nel 1676 ciò avvenne. In più, la data del 21 maggio 1676 per l’assedio banditesco di Maratea è quella che si ritrova anche nelle cronache del Regno di Napoli. L’apparente contraddizione nel testo di Iannini può spiegarsi con un errore nella trascrizione del testo originale nel volume stampato: nella calligrafia di Iannini – che ho potuto osservare con i miei occhi nell’archivio parrocchiale – il segno del 2 è molto simile a quello del 7!
Cronaca di una battaglia brigantesca.
Non sappiamo dove il curato Iannini abbia tratto la dettagliata cronaca che nel suo manoscritto Di S. Biase e di Maratea, scritto tra il 1829 e il 1835 ma reso pubblico solo nel 1985, ha avuto cura di tramandarci. Per la quantità di dettagli, si doveva trattare di una cronaca coeva, ma essa non sembra essere sopravvissuta in nessun archivio!
Tutto iniziò prima dello spuntar del sole. «Allo spuntar dell’alba del testé segnata dì vent’uno Maggio, si ritrovò Maratea inferiore, sotto il tirannico dispotismo di centosessanta Banditi, i quali guidati da Gente prattica del paese, ch’erano per la Campagna, e presi per forza, vi erano entrati la notte precedente: si erano divisi in più turme: si erano impadroniti de’ Capi delle Strade: avevano circondati diversi Palazzi; ed all’apparir dell’Aurora, sostenendo un vivo fuoco, fecero ravvisare i poveri abitanti, allo svegliar del sonno, confinati in un abisso di inevitabili sciagure.
Le case principalmente prese di mira furono le seguenti. Quella cioè del fù Ill.mo signor D. Giovanni Battista Gennari, in strada Arco de’ Cappuccini: del Rev. Cappellano della Chiesa soccarsale della Santissima Annunciata, per nome anche D. Giovanni Battista Gennari, ivi vicina, oggi però diruta: di D. Diego Mari, in strada vicino la Chiesa Parrocchiale, acquistata poi dal fù Ill. mo D. Giovanni di Lieto, il quale col suo ultimo Testamento, e con delle rendite, la lasciò per uso di Ospedale, com’è al presente, per cui la Strada, dell’Ospedale si appella: quella del fù Ill.mo D. Giovanni Loreto de Santis, e quella del fù Ill.mo D. Marcello Ginnari Satriani.
Avevano i Banditi, deposto il loro Bagaglio, nel piano avant’il Convento de’ Minori Osservati, oggi abitato dalle Salesiane, per essere più spediti alle straggi, ed alle rapine: e la prima casa, che stimarono di assalire, fù quella del Signor Ginnari, all’Arco de’ Cappuccini, al di cui Portone, che non potettero mai guadagnare, attaccarono il fuoco. Oltre alla fortezza del Portone, vi avrebbero sperimentata pure una viva resistenza, stante i Signori Gennari, più Fratelli erano, coraggiosi, e muniti di armi, ma come poterlo fare? Avendo guadagnata la casa dirimpetto di Ascanio Zeno, oggi della vedova Signora Benedetta Farachi alla stessa tiravano delle fucilate continuamente alle finestre della Casa assalita. Furono di avviso dunque di difendersi al meglio che potettero: e foderando le Finestre di pericolo, di matarazzi, per non restare uccisi dentro la propria Casa: furono tutti attenti, ed intenti, per un camino, che corrispondeva sopra il portone, a versare dell’acqua, per estinguere il fuoco ed essendo rimasta essiccata una gran Cisterna, si videro nella necessità di versarvi più botti di vino. Con questo metodo il portone non fù mai guadagnato; e ad essi Gennari, oltre all’acqua, e vino consumato, niun altro danno avvenne.
Per quanto le fucilate tirate dalla Casa di Ascanio Zeno, contro la Casa dell’Ill.mo Signor Gennari fossero riuscite inutili: altrettanto di profitto furono ai Banditi, quelle tirate verso il Casalitto, o sia Casaletto: imperciocchè molto danno arrecarono a Michel’Angelo Ferrauto, ed a Domenico Antonio Mancino, i quali restarono feriti, e per miracolo del Santo, alla di cui intercessione ricorsero, vennero contro ogni aspettativa sollecitamente, e perfettamente guariti. Tanto la famiglia di Zeno, che di Ferrauto, sono da più tempo estinte.
In questo mentre il Rev. Cappellano Gennari, restò persuaso, di voler essere anch’Egli di breve aggresso, ed assassinato. Determinò però quantunque vecchio morir non da codardo. Si fece da’ suoi portare lo Schioppo, e la munizione; e nel momento che si accingeva a grandi imprese, una palla entrata per la finestra di sua Casa, andò a battere alla sua gola; ed invocato all’istante di S. Biase, portento, una superficiale decorticazione. Un tale avvenimento gli fece mutar pensiero, e risolvere di vincergli con la Cortesia. Gli aprì volontariamente la Porta della Casa, gl’invito, gli offrì i suoi Beni mobili, che si presero: gli esortò a non prendersi il denaro da dentro una Cassa, per essere appartenente alle Anime Sante del Purgatorio, e lo intesero: gli esortò a lasciargli una sola forchetta di argento, per magiare, e lo compiacquero: se ne andarono quindi senza molestarlo; ma sopraggiunta un’altra turma, niente gli lasciò all’infuori di contusioni, e ferite.
Dirimpetto alla Casa del Rev. Cappellano Gennari, abitava allora Francesco de Fortuna, ed oggi per esserne proprietario l’Ill.mo Signor D. Leopoldo Fasanari. Il suddetto Fortuna, dopo avere buttato il suo oro ed argento nel luogo immondo si nascose, e nascosto non cessò di raccomandarsi al Santo Protettore. Fù esaudito stante nell’entrare in sua Casa i Banditi ne restarono spaventati dai clamori, che si sentivano per la Città; ed atteso i clamori, Maratea superiore che in que’ tempi teneva cinque Cannoni ne sparò uno, per cui se ne uscirono subito; ed il de Fortuna non si stancò di ringraziare il Santo, per averlo liberato.
Prima dello sparo del Cannone, e contemporaneamente, che una turma nelle strade Arco de’ Cappuccini, e Penninata, stava intenta ad assassinare, quanto gli riusciva, un’altra guadagnato aveva il Portone di D. Diego Mari, e lo aveva trafitto di pugnalate, e non contenta di averlo spogliato di tutto; anzi lo più protervo di essi gonfio di gloria, senza mai stancarsi, per animare i Compagni, non cessava di gridare, e gridando di ripetere Oliva Oliva: parola di segno, che il bottino si andava accrescendo: ma immediatamente poi mutò di aspetto l’affare, perché Giovanni Andrea Parrazino, che si ritrovava dalla sera precedente nella Casa sottoposta dell’Ill.mo Signor de Santis, per andare in sua Compagnia, a divertirsi nella Campagna, essendo entrambi bravi cacciatori, dalla stessa gli tirò una fucilata, per la quale cadde morto sul posto, cioè fuori la loggia della Casa del Mari.
Direpente i compagni si diedero alla fuga, ed arrivati nella piccola piazza denominata Palazzo, il Parrazino, da dentro la Cucina della stessa Casa, tirò un’altra fucilata, e fece rimanere un altro Bandito freddo cadavere sdrajato al suolo. Tal doppio per essi funesto avvenimento: i clamori dell’intiera popolazione, che chiamava S. Biase in ajuto; e l’essere usciti da tutte le Case degli Uomini armati sostenendo un vivo fuoco, gli pose in scompiglio, per cui invece di gridare Oliva Oliva; andavan ripetendo Ceuza Ceuza indicante tal’ultima replicata voce, resistenza, e persecuzione.
Tre ore di tempo, e non più duro tutto il conflitto. Immediatamente dopo la morte de’ due Banditi: lo sparo del Cannone; e l’insurrezione della popolazione, si diedero alla fuga, precipitandosi da tutte le parti. Altri presero la strada di Zuccalia, che conduce al Convento di S. Francesco di Paola: altri verso quello, ora abitato dalle Monache Salesiane: altri finalmente, per la strada detta Garàzza, che conduce al Convento de’ PP. Cappuccini. Il di loro scopo era potersi riunire nel luogo denominato Campo, ove vi è la Cappella dedicata a S. Barbara; ma non tutti vi arrivarono, atteso il gradinar delle palle, a loro danno, per parte de’ Marateoti.
Si continuarono a sentire i clamori in Maratea inferiore. Le Femmine, che consideravano il pericolo de’ loro congionti, non sapevano dire altro, se non S. Biase: Corpo Santo: Padrone nostro: combatti per noi. Si vedevano pure da Maratea superiore, altri fuggire: altri inseguire. Si videro i fuggitivi ringolati nel punto detto Campo, ed in mezzo di Essi si diresse il Cannone, che si sparò per la seconda volta; ed oh portento! La palla del Cannone, diede in un grosso sasso, e lo stesso nel frangersi, ne infranse degli altri; e si venne a formare come una mitraglia, di tanta violenza, che fece de’ Banditi un gran macello; de’ quali i superstiti sempreppiù fuggendo, siccome camin facevano, così si andavano spogliando di ogni senso di Umanità. Sulle prime scannarono que’ loro compagni, che non si fidavano di proseguire la marcia, perché feriti. Indi da tale barbarie, accaniti tra di loro, ne’ luoghi più deserti, e cavernosi si trucidarono vicendevolmente. Di tutt’i centosessanta ch’erano di numero, appena quattro di essi, restarono semivivi, che poi andarono a morire, cioè in contrada la Monica: un altro in contrada Rizzaro; e due altri in territorio della vicina Commune di Rivello, dal di cui Convento de’ Minori Osservanti, un Padre per carità, andò ad amministrargli il Sagramento della Penitenza.
Dopo ciò ritiratisi i Marateoti nella Città inferiore, i Capi del Popolo fecero suonare la Campana detta del Consiglio. Si radunarono le Genti, ch’erano uscite colle Armi. Si passò la rivista, e si ritrovarono tutti sani e illesi. Si andarono in seguito facendo le diligenze per la Città, e si conobbe, che il Rev. Cappellano Gennari, aveva molte ferite, e contusioni Michel’Angelo Ferrauto, e Domenico Antonio Mancino, erano offesi; e l’Ill.mo Signor D. Diego Mari, universalmente trafitto da pugnalate. Si conobbe ancora, che semi morta per lo spavento ne stava Madama la Moglie di quest’ultimo con un Servo, sopra la soffitta, dove si erano di erano appiattati e si avevano tirati la scala; e che mancavano dalla Padria, il Figlio del Mari, per nome D. Giuseppe, il Sacerdote D. Biase Ferraro, e Giovanni Loreto de Fortuna. I Medici-Chirugi, subito si portarono a curare il Rev. Gennari, Ferrauto e Mancino; che teneva una palla dentro di una Coscia, li quali sanarono miracolosamente dopo pochi giorni, Gli Ecclesiastici attesero a munire di Sagramenti D. Diego Mari, che nello stesso giorno morì da Santo, invocando i Santissimi nomi di Giesù, e di Maria; e raccomandandosi alla potentissima intercessione di S. Biase; e le Nobili Matrone, non lasciarono di assistere, e consolare Madama Mari, immersa nel cordoglio; e per lo spavento de’ Banditi, e per la morte del Marito, e per lo smarrimento del Figlio.
Si stava quindi da tutti, come tra le Spine, per la mancanza de’ tre mentovati Individui, de’ quali non si aveva contezza veruna, e solo si sapeva ch’erano stati rapiti da’ Banditi, quando fuggirono. Dopo tre giorni però ritornarono, senza offesa veruna; ed il Sacerdote Ferraro riferì, che in tanto non erano stati uccisi, in quantocché que’ Scellerati, atterriti ne venivano, come dicevano, da un Vecchio venerando che vedevano ogni qual volta, il pensiero ne lo suggeriva: che lo stesso Vecchio, veduto avevano, con un bastone tra le mani, col quale gli perseguitava , e perciò si erano dati precipitosamente alla fuga: che nella notte immediatamente al Conflitto, avevano veduta anch’essi la montagna di S. Biase circondata di fuoco acceso, ed al risplendere delle fiamme un grosso Esercito. Finalmente assicurò, che di tutt’i centosessanta Banditi, piombati nella Padria, niuno più si ritrovava nel numero de’ viventi.»
I quadri dell’assedio.
Il soccorso divino, con l’apparizione del santo, non poté non portare ad una raffigurazione dell’episodio nelle chiese come evento legato al prodigio del miracolo. Sempre Iannini ci informa che «a futura memoria, si fece dipingere in due quadri, de’ quali si vedevano i Banditi, perseguitati da’ Marateoti: S. Biase che gli metteva in fuga; e la Vergine SS.ma, che da sopra le nuvole Maratea proteggeva». Il primo quadro era scomparso già nel XIX secolo, del secondo è andato perduto in tempi poco più recenti.
La processione con il cero.
Dopo l’assedio venne stabilito di fare, ogni anno, una processione votiva con un cero nell’anniversario dell’episodio. Però, man mano che la Storia faceva il suo corso, e gli uomini testimoni e vittime di quei fatti lasciavano posto sul palcoscenico del mondo ai figli prima, ai nipoti poi e agli sconosciuti discendenti dopo ancora, la tradizione si perse.
Era però questa tradizione un seme disposto a dare frutto. Come ho scritto in un precedente intervento, è proprio da qui che nascerà l’idea di rinnovare i festeggiamenti blasiani di maggio per far divenire la festa così come la conosciamo ora. Si dovrà però aspettare il 1695, quando gli uomini raccolti intorno al sindaco di Maratea inferiore, Federico Riccio, e al notaio Giovanni Pietro Lombardi creeranno una nuova tradizione destinata a sfidare i secoli.