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Le industrie del Sud dopo l’Unità d’Italia

Nel 2012 il prof. Gennaro De Crescenzo, leader e fondatore del Movimento Neoborbonico, dava alle stampe un volume riguardo Le industrie del Regno di Napoli.

In questo studio De Crescenzo voleva dimostrare come il Regno delle Due Sicilie fosse uno Stato all’avanguardia nell’industrializzazione del suo tempo.

Le cinquemila fabbriche di De Crescenzo.

L’opera di De Crescenzo.

L’autore vuole stilare una piccola «storia delle industrie di quello che con termine giuridico più corretto si definiva Regno delle Due Sicilie» (p. 13) ma, in realtà, si limita alla sola parte continentale, corrispondente a ciò che prima del 1817 si chiamava Regno di Napoli. De Crescenzo prende le mosse dalla critica alle idee secondo le quali al Sud «l’industrializzazione in epoca preunitaria era praticamente inesistente o per la cattiva volontà dei vari governi borbonici o per un’atavica difficoltà che le popolazioni meridionali avrebbero sempre mostrato di fronte al lavoro» (p. 147).

In particolare, il filo conduttore polemico dell’opera riguarda «il frutto dell’intervento diretto dello Stato» (p. 25), spunto evidentemente fornito dall’intervento speciale: «negli ultimi anni la politica economica italiana sta facendo numerosi e spesso vani sforzi per attirare investimenti degli imprenditori settentrionali e del resto del mondo proprio nelle stesse aree oggetto di queste ricerche» (p. 30, nota 38).

Nonostante voglia parlare di «un lungo elenco di imprenditori e di fabbriche che in questi anni nacquero e si svilupparono per una serie di motivazioni oggettive» (p. 19), De Crescenzo, seguendo la linea interpretativa delle fonti dell’epoca, mischia alle industrie così dette in senso moderno le manifatture artigianali o addirittura casalinghe. A fianco allo stabilimento di Pietrarsa vengono enumerate «almeno 109 fabbriche (strutture con almeno 5 addetti)» (p. 22) nella sola città di Napoli.

L’autore precisa che «non tutte le aziende disponevano di veri opifici, utilizzando spesso appartamenti più o meno ampi» (p. 76), lasciando intendere la natura artigianale di tali aziende. Ad esempio, De Crescenzo considera fabbriche anche le manifatture degli istituti di carità: «in Basilicata si mettevano in evidenza lo stabilimento delle Gerosolimitane a Potenza per gli “ottimi tessuti di lino, seta, cotone e lane” e quello di Matera, in grado di esportare all’estero» (p. 79).

L’autore scrive, «in conclusione, [che] le fabbriche erano cinquemila e la percentuale di occupati nelle industrie tra la popolazione attiva era pari al 6% circa con punte (Napoli, Terra di Lavoro, Principato meridionale e settentrionale) vicine all’11% con medie vicine a quelle del resto d’Italia tanto che il 27% del totale dei lavoratori delle industrie italiane era nel Mezzogiorno continentale. [C’erano] 1.189.582 addetti all’industria nel Mezzogiorno continentale secondo i dati del primo censimento italiano del 1861» (p. 22).

Il senso della parola industria.

La fonte primaria del lavoro di De Crescenzo è una statistica industriale redatta verso il 1846 e conservata all’Archivio di Stato di Napoli. In essa si annoveravano tra gli opifici industriali anche strutture come molini, gualchiere, frantoi, ecc. Ciò spiega l’enorme numero: considerando che nella parte continentale del regno borbonico c’erano 1.848 comuni, cinquemila fabbriche significa una media di 2,7 opifici per comune.

Come spiegare questi dati con l’immagine di un Regno delle Due Sicilie – così come di tutta l’Italia preunitaria – estremamente indietro sul piano dello sviluppo industriale?

Già in un altro articolo su questo sito ho affrontato il problema riguardo il senso da dare alla parola industria nelle fonti di metà Ottocento.
La parola indicava un concetto diverso all’epoca: industria era un qualunque lavoro non collegato all’opera della natura, quindi nelle fonti d’epoca troviamo dizioni come industria armentizia, industria molitoria, industria del vino, ecc.) e nei censimenti si registrava come occupato industriale qualunque lavoratore che esercitasse un mestiere manuale (dalla casalinga tessitrice allo stagnino).

Quindi, la più grande parte delle industrie censite qua e là erano poco più di laboratori artigianali.
In più, sono da contestualizzare i dati del primo censimento del Regno d’Italia, che ripartiva come in tabella gli occupati del secondo settore:

Gli occupati nell’industria nel primo censimento italiano.

Se a una prima lettura ci si potrebbe ingannare, si può notare che la ripartizione – che ricalca i confini degli stati preunitari – tende a gonfiare il dato del Mezzogiorno e a spezzettare quello del Settentrione.

C’è stata una deindustrializzazione del Sud dopo il 1861?

Frontespizio del fascicolo sulla Basilicata.

Il punto centrale di questo nostro articolo è però un altro. È vero, come sostengono molti revisionisti del Risorgimento, che dopo – e in conseguenza – dell’Unità nazionale le province dell’ex Regno borbonico furono depauperate delle proprie industrie?

È possibile rispondere a questo quesito con un’altra statistica, redatta negli anni ’90 del XIX secolo. Da qualche tempo l’Istituto Nazionale di Statistica ha messo a disposizione parte del suo patrimonio in formato digitale. La Statistica è redatta per province e i fascicoli, distinti per provincia, si possono trovare qui.

Da quei dati emerge che al 1891 il Mezzogiorno d’Italia contava ben 16.656 opifici, numero oltre tre volte superiore a quello calcolato da De Crescenzo per il periodo preunitario.

Certo, anche per la statistica postunitaria va tenuto presente che molte delle attività contate non ha le caratteristiche che oggi consideriamo proprie dell’industria in senso stretto, ma il dato è comunque sovrapponibile a quello preunitario proprio perché redatto con metodi molto simili.

Non soltanto, quindi, non vi fu alcuna deindustrializzazione del Sud, ma, anzi, il Mezzogiorno vide crescere i suoi stabilimenti dopo il 1861.

La propaganda del revisionismo risorgimentale, quindi, si configura più come una posticcia polemica (pseudo)politica sulle politiche nel e sul Mezzogiorno che un reale studio storiografico. Ma ciò non è una novità…

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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