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Un santo fuori stagione. Storia e storie della festa di maggio di S. Biagio a Maratea

Una risonanza patria.

La festa di S. Biagio di maggio è per noi marateoti un avvenimento paragonabile al Natale ed alla Pasqua. La si aspetta con la stessa gioia e trepidazione. Capita però che qualcuno ci chieda come mai, dato che il giorno che la Chiesa ha fissato per ricordare il santo armeno è il 3 febbraio, a Maratea si festeggi anche a maggio.

In realtà, la festa di maggio di Maratea sta a celebrare l’anniversario della traslazione delle reliquie del santo dall’Armenia alla nostra terra.

 

Le leggende sono la Storia dei tempi senza Storia.

Della leggenda circa l’arrivo delle reliquie del santo a Maratea abbiamo molte versioni. La più antica pubblicata su un testo a stampa è quella raccontata da Paolo D’Alitti, stimato sacerdote marateota (1676-1728), che pubblicò un libro sul santo e sulla città nell’anno della sua prematura scomparsa. Nel suo volumetto ci spiega che alla sua epoca c’erano «alcune incerte tradizioni de’ Paesani di Maratea, i quali dicono, come una nave, la quale conducea la cassa con dentro il sacro tesoro, passando a vista d’essa Città co’l mare in calma, e l’aria serena, da incognita remora si conobbe trattenuta, o pure perché turbandosi di repente il mare, non dava luogo a partirsi tentarono più volte, ed in varie maniere i Nocchieri, e Marinari di proseguir il viaggio; ma riuscite inutili le prove tutte, perdendo invano il tempo, nè sapendo assegnar ragione naturale, ricorsero a quella sopra naturale; onde devotamente prendendo il corpo del Santo, lo deposero in terra. Appena ciò eseguito, si vidde la nave libera dalle catene, e veloce a proseguir il cammino. Tentarono di riprendersi nuovamente la cassa, e di nuovo si vidde immobile la nave, o pure di nuovo si conturbò il mare. Conoscendo dunque la volontà del Santo, la riposero in terra, consegnandola a’ Cittadini di Maratea. Erano questi accorsi al lido dirimpetto alla nave spinti d’aver di notte visto da quella uscir una luce, che tutt’il convicino illuminava, onde accorti per domandarne, intesso da i Naviganti quanto successo, e lieti di tal nuova, presero il Venerabile deposito e lo condussero nella padria; ove alcuni della nave vollero trattenersi per far compagnia al loro Santo Paesano, e fin’ora vi sono i discendenti detti per tal cagione, di cognome Armeni.»

 

La festa si allunga.

Originariamente la festa durava solo due giorni, il sabato e la prima domenica di maggio. Si svolgeva a Maratea Castello, in cima al monte, dove alla processione si affiancava la fiera, accordata, a mo’ di mercato franco, dalla regina Giovanna II d’Angiò, con suo privilegio, nel 1428. Questo privilegio, seppur non nomini esplicitamente il culto del santo, è il più antico indizio della festa di S. Biagio a Maratea insieme al testo di una platea vescovile del 1510 di Cassano allo Jonio (diocesi a cui sono appartenute le parrocchie di Maratea fino al 1898), dove si dice che nella chiesa di Maratea «Sancti Blasi corpus… ibi honorifice et collocant» e la ben più famosa bolla di Pio IV del 1562 in cui si certifica il fenomeno della Manna.

Soltanto sul finire del XVII secolo, però, i nostri antenati decisero di allungare di altri sei giorni i festeggiamenti, con una deliberazione del sindaco di Maratea inferiore – una delle due amministrazioni comunali in cui Maratea è stata divisa fino al 1808 – il cui verbale originale, in latino, sottoscritto dal notaio Giovanni Pietro Lombardi, è purtroppo andato perduto.

Ne conserviamo solo delle copie, alcune delle quali sono a stampa. Sperando fare cosa gradita a tutti i fedeli ed agli appassionati di storia patria, pubblichiamo sulle nostre colonne la fedele traduzione italiana, composta nel 1928 dal mons. Domenico Damiano (1891-1969), della copia latina conservata nell’archivio parrocchiale di Maratea. In essa c’è il cuore, la radice, l’alba della festa che noi, dopo tanti secoli, ancora oggi, con tanto amore e con tanta devozione, celebriamo.

 

Anno Domini 1695.

«In nome di Dio, amen. L’anno 1695 dalla Circoncisione di N. S. Gesù Cristo, il giorno tre del mese di Maggio della terza Indizione, nella Città di Maratea superiore e propriamente nella Cappella SS. e gloriosissimo S. Biagio nostro Patrono, dopo averne ottenuta la venia, a cagione del giorno festivo della Invenzione della S. Croce di nostro Signore. Regnando il Serenissimo e Cattolico Signor nostro Carlo II per grazia di Dio difensore della fede e Re di tutte le Spagne, delle Indie, di Gerusalemme, dell’Ungheria, della Dalmazia, della Croazia, del Portogallo, delle due Sicilie, ecc.; nel trentesimo anno felicemente regnante. E sotto il pontificato del SS.mo Signor nostro Innocenzo XII per divina provvidenza Papa; nel quinto anno felicemente regnante, ecc.

Costituiti personalmente innanzi a Noi gli onorabili e magnifici uomini A. D. Dott. Federico Riccio, odierno Sindaco e pubblico amministratore dell’Università di Maratea inferiore, e gli spettabili uomini Nicola Ruggio, Girolamo de Ieno, eletti nel governo di detta Università, nonché gli egregi e magnifici uomini Francesco Sifanni, Onofrio Ginnari, a. m. Dottori Antonio de Sanctis, Biagio Remida, Urbano Grilluccio e Diego de Crescentiis, deputati dalla predetta fedelissima città a quest’atto, come appresso.

I medesimi magnifici, Sindaco, eletti e deputati, come sopra, con il presente pubblico istrumento dichiarano pentirsi di vero cuore delle loro passate mancanze, e di quelle dei loro maggiori, e detestano la trascuraggine e l’abbandono della loro divozione verso l’invittissimo e gloriosissimo Presule, lume splendidissimo della fede, santo martire Biagio cui siano obbligati per tanti benefici ed incessante protezione che da per tutto ci ha accordato, facendosi nostro scudo e difesa e norma dl credere. Costui che illustrò l’Armenia, che resse Sebaste, e che è venerato da tutto il mondo, si scelse per sua patria diletta questa nostra città di Maratea. A questa stessa città fu come oste schierata in campo e come muro si appose ai suoi nemici, e, combattendoli apertamente, li sbaragliò.

Di quanto i nostri antenati gli erano debitori, noi altri posteri veniamo a compiere, e, chiedendo venia delle passate trascuratezze, promettiamo volergli prestare per l’avvenire quell’ossequio, quella servitù e quel culto che gli è dovuto.

Egli venne a noi con fausti auspici, e, attraversando un mare immenso, mutò la patria terra, e la nave beata che era arricchita di sì prezioso tesoro, approdò a questi nostri lidi, e, quasi sospirando per Maratea, stette immobile, e benché munita di ampie vele, gonfie da impetuoso vento, che doveva velocemente spingerla nella sua corsa, pur non si mosse di un sol grado, trattenuta come per misteriosa forza! Quale ostacolo, qual calamita, tra tanti impulsi, trattiene la nave? Era la nave del mercadante prevista dal Sapientissimo Salomone che da regioni lontane portava il pane che doveva render felice la nostra Patria, illustrando le sue mura con luce celeste, adornandola di novelli splendori, poiché l’invitto Pontefice, dichiarato da Cristo lucerna e sole, dovette collocarsi non già sotto il moggio, ma sul candelabro di questa nostra città. Ed appunto perciò il nostro gloriosissimo Protettore venne tra noi colle sue Reliquie, e, per disposizione del Cielo, ci fu dato come Patrono per confermarci nel bene e conoscere la divina volontà. E siccome per lume soprannaturale i Re d’Oriente una volta conobbero il noto Re dei Giudei, e, guidati da una Stella si recarono ad adorarlo, così anche S. Biagio, coi medesimi lumi conobbe che era volontà di Dio dover essere nostro Padre; a questo nostro Protettore quindi si può appropriare il detto d’Isaia: “Super montem excelsum ascende tu, huic sublimitas huius montis in requiem, et ostensionem Gloriae dedicata est.”

Che Egli stesso abbia scelto questa Città per sua dimora, lo ha sempre dimostrato con infiniti miracoli. Difatti quando l’armata dei Francesi stava per mettere piede nella nostra fortezza, essendo addormentate, le sentinelle, Egli che vegliava per noi, le destò dal profondo sonno, percuotendole nel viso a ceffate ad avvisandole così del pericolo le eccitò alla pugna. Di più, questo nostro mare coperto di navi Turche che minacciavano trarre tutti in misera schiavitù, il solo Biagio comandò ai venti e al mare, e, facendosi credere come seguito da un grosso esercito, volse in fuga il nemico respingendo la flotta e facendo giustamente tingere col sangue della vergogna la luna di Maometto. Un sì gran Protettore dunque ci fu largito dal Cielo, e ci era necessario per difendere ciò che gli apparteneva, colle armi, coll’assistenza, coll’aiuto del consiglio.

Tralasciamo tante altre passate beneficenze e parliamo di alcuni favori più recenti.

Scelleratissimi uomini, ladroni di pubbliche strade, nel cupo silenzio della notte, scorrazzando pel paese, assordavano e impaurivano tutti coi loro e col frastuono delle armi, e tanto più erano terribili in quanto che, insieme alle ricchezze ad alla vita dei cittadini, minacciavano l’universale sterminio. E certo avrebbero compiuta l’opera nefanda se pochi inesperti al maneggio delle armi, invocando l’aiuto del Santo Protettore, non avessero preso coraggio, e, fatti baldi dalla fiducia del Santo, non si fossero posti intrepidi a dar la caccia a coloro che prima tanto temevano; e così, nel nome Suo, riportando piena vittoria. Tanto è vero che gli stessi uomini catturati e quelli che semivivi erano caduti per le vie della città, confessarono che era stato loro tolto l’ardire e la fuga ed erano stati stramazzati al suolo da un Vecchio di bella presenza, di aspetto venerando, con occhi, voce, gesto ed armature minacciose.

Ma i benefici maggiori con i quali dimostrò di amare la sua patria adottiva furono quelli di mantenere nei cuori dei cittadini sempre intatta la fiaccola della fede contro le eresie dei Novatori, infondendo in essi la vera pietà e conservando fino ai giorni nostri puri e illibati i principi religiosi: difatti come mai dov’è presente S. Biagio possono esistere costumi e istinti selvaggi e barbari se Egli, per virtù di Dio, mansefece le fiere tanto che gli lambirono i piedi e le mani? Egli è la nostra pace ed unisce in un sol cuore anche i più schivi. Tra noi non tumulti di popolo, non discordie civili, insomma siam tutti di un un sol cuore, di una mente sola. Di più S. Biagio vinse la morte, allontanò le carestie, accrebbe la carità nei nostri petti, perché la carità del Martire che risplende tra noi ci serve d’esempio; con ragione dunque possiamo ripetere col reale Profeta: posuit fines suos pacem, et adipe frumenti satiat te. Di grazia, quali contagi, quali disastri ci han mai contristati? Noi stessi siam testimoni de’ suoi favori, noi stessi vedemmo rifiorire l’età dell’oro quando militammo sotto un Santo Patrono! Beata quella città il cui re è magnanimo, da lui apprendiamo ad esserlo anche noi; e mentre che S. Biagio col suo sangue tiene in mano lo scettro di questa nostra patria, c’insegna ad attingere da lui i fiori della beatitudine e dei buoni costumi, la perfetta santità e la gloria dell’empireo. Possiamo perciò gloriarci dei suoi meriti, dal perché discendenti dal seme di Abramo, siamo liberi di quella libertà che il nostro Santo Martire ci ha dato, essendo Maratea l’unica e sola città del regno che è vergine di servitù né fu mai venduta a tirannico dominio.

E come mai poteva vendersi, non potendo nessuno valutarne il prezzo, avendosela Egli prescelta a sua patria e per diritto di adozione, e per diritto di patrocinio, e per diritto di difesa, e per autorità di un amore tutto singolare, e con tanta gelosia che, coloro i quali osarono alzare la bocca contro il cielo, meritamente la loro lingua gli si strozzò in gola? E chi rimase consunto per lenta febbre o ucciso da sinistro accidente; anzi a chi avesse ardito di darla in dono, o venderla schiava, il nostro Difensore fece esperimentare la potenza del suo braccio, affliggendolo col mal di gola: insomma Egli di continuo combatte per noi, per la nostra libertà. Gran dono adunque è la libertà!

Inoltre la liberalità del nostro Martire, che versò il suo sangue per la fede, ci stabilisce nella pace, e ciò baserebbe a intenerire i nostri durissimi cuori. Ma i suoi benefici si moltiplicano a dismisura, diciamo a gloria di Dio, a gloria sua e a confessione stessa dei nostri maggiori.

Difatti, come gl’Israeliti venivano saziati abbondantemente dalla Manna, di quella rugiada celeste che pioveva nel deserto, così pure questa vena perenne della S. Manna che fluisce dalle ossa e dal Tempio del nostro gran Santo, serve a noi di consolazione negli affanni, anzi il Sacro Liquore è medicina pel corpo, è pegno di salvezza in ogni circostanza!

Orribili terremoti scuotevano la terra e per ogni dove si levavano gemiti ed alte grida: tremò il regno, fu desolata la Sicilia, l’America meridionale fu privata di varie provincie, città illustri ebbero le mura e le fortezze adeguate al suolo. In quel tempo, mentre l’ira di Dio si era scatenata a punizione di tutti, inaspettatamente stillò il Sacro Umore, e, sudando il S. Martire per difendere la nostra causa presso il Giudice Eterno, con tali indizi manifesti, dimostrò di aver aggiudicata a sé la causa della nostra sicurezza e restammo incolumi. Soffiò di nuovo lo Spirito di Dio sulla terra, di nuovo scaturì la Sacra Manna, e, mentre dovunque traballava il suolo e le genti cadevano lungo le vie, tra noi non cadde nemmeno una pietra. Sentimmo tanti eccidi altrove avvenuti, ed a noi che cosa accadde di triste? Qual grande beneficienza non ci è stata largita dal nostro Santo? Abbiamo forse bisogno di altri chiari argomenti per conoscere quale vale il Suo patrocinio?

Ma v’ha ancora di più. Fra gli altri popoli regna la discordia, non così in mezzo a noi, essendo avvertiti dal reiterato scaturire della grazia celeste, della Manna, di questa sorgente miracolosa che si conserva incorrotta che dobbiamo amarci con scambievole amore.

E dobbiamo notare che in quest’anno appunto nella Domenica Laetare, mentre si annunziava colla predica la letizia della Chiesa, incominciò a scaturire profusamente, e tal prodigio durò continuo fino alla seconda feria di Pasqua; e nella festa plenaria di Maggio ne scaturì in maggior copia.

Chi può mai dunque, o Santo Patrono, enumerare e descrivere gli obblighi immensi che abbiamo verso di te? Per te vediamo abbonacciato il mare, sol che vi si getta il pane benedetto nel Tuo nome; e come mai potranno perire lungo i viaggi coloro che portano addosso questo pane celeste? Tua mercé si sedano le più orribili tempeste, e noi medesimi ne siano testimoni, perché coi propri occhi vedemmo quegli che cadde nel mare, e, tra le furie dei cavalloni giganteschi spumeggianti che minacciavano sprofondarlo negli abissi, ne uscì incolume, come se avesse passeggiato all’asciutto, e ciò con versarvi la Manan che portava addosso, potendo meritatamente dire col Salmista: Salvavit me dextera tua!

Di vantaggio, se la Manna si versa nel fuoco, ne doma la forza, ed è come salvaguardia agli oggetti che ne sono bagnati, come avvenne in una terra a noi vicina chiamata Carbone; quivi tirandosi al bersaglio, come segno si posero due cappelli uno sovrapposto all’altro; ma nel tirarsi i colpi, il piombo perforò completamente quello che stava al di sotto, rimanendo del tutto illeso quello che era al di sopra, e con grande meraviglia di tutti gli astanti, si osservò che in esso, dentro una carta eravi avvolta una tela bagnata di sacra Manna.

E oh! Quanti mali non cessano alla sola invocazione del nome di S. Biagio! Le stesse pietre cedono alla sua potenza e vi resta impressa la sua figura! Difatti, dalle mani di un fanciullo che se ne ritornava da questo Tempio, cadde un pane benedetto, portante l’immagine del Santo, sopra un sasso v restò l’impronta!

I nostri cuori, o gloriosissimo Martire, si sarebbero induriti a guisa di macigni se non fossimo ricorsi a Te per gustare la fragranza de’ Tuoi Unguenti! O Potentissimo nostro Patrono, noi per Te viviamo, per Te sospiriamo, ed essendolo Tuoi, tu liberasti colla tua mano i nostri concittadini naviganti che trasportavano la tua Statua, dalle mani dei Turchi, interponendo una nube, togliesti la vista al nemico.

Tu doni la sanità agl’infermi, raddrizzi gli sforzi, dài l’udito ai sordi, la favella ai muti. Tu solo sei la difesa della nostra città, a te solo ricorriamo qual dispensatore dei carismi celesti: Tu sei asilo di fortezza, aiuto nei pericoli, Tu il difensore dei pellegrini, che a Te ne vengono con fiducia da lontane contrade.

Anche i Grandi esperimentano il Tuo patrocinio: il nostro Re, cui auguriamo un regno lungo e felice, per Tua intercessione ricuperò la salute, fa che, per i tuoi meriti, percepisca il frutto della benedizione; a Te l’Austriaco Monarca edificò questo tempio, rafferma adunque la sua casa, prosperandolo nella prole.

Per tutte queste cose e per altri innumerevoli benefici ricevuti per i meriti venerarono sempre come singolar Patrono, noi uniamoci ad essi e correggiamo ciò che trascurarono per ignoranza, protestando che in ogni anno nella Domenica prima o nella seconda dopo la festa plenaria di Maggio, con vera contrizione e con tutta solennità si dovrà portare processionalmente per tutta questa città il Simulacro del nostro S. Protettore, e, in segno di dominio e di riconoscenza, per ciascun anno ed in perpetuo, offrire un cero e dieci ducati.

In ultimo, tutti di questa nostra città, umilmente supplichiamolo che non cessi distendere la sua mano potente su di essa e su tutto il suo popolo, e voglia liberarci dal triplice flagello dell’ira divina, cioè dalla peste, dalla fame e dalla guerra, e, durante la nostra vita, voglia impetrarci la pace, l’abbondanza e la salute, nonché d’istillare nel cuore de’ cittadini la cristiana carità; insomma liberarci da ogni avversità, e finalmente ottenerci tutto ciò che egli crederà espediente per l’anima e pel corpo.

Mediante la sua intercessione, speriamo mantenerci fermi in questa volontà che promettiamo e protestiamo di aver sempre verso il nostro Santo.

Tutte queste cose, come esposte di sopra, i predetti magnifici Sindaco, Eletti e Deputati da principio nominati e col consenso dell’Ill.mo e Rev.mo Mons. Vescovo di Cassano, come si nota qui appresso, hanno promesso ecc. per qualsivoglia ragione.»

 

Il testo della richiesta ufficiale al vescovo di Cassano fu:

«Ill.mo e Rev.mo Signore,

Il Sindaco ed Eletti della città di Maratea inferiore, a nome loro e di tutta la città e pubblico, in nome di tutti, supplicando, espongono a V. S. Ill.ma e Rev.ma come Domenica 10 del corrente mese di Aprile di quest’anno 1695, invocato il Nome SS. di Dio e del S. Protettore S. Biagio, in pubblico Parlamento, senza nessuno contrario, conchiusero doversi, ad onore del nostro potentissimo Protettore S. Biagio, stabilire in eterno e per sempre una Processione solennissima colla Statua del Santo, da calarsi dal Castello di Maratea superiore il giorno antecedente alla Processione, collocandola in una di queste nostre chiese, per poi la Domenica seguente, portandola processionalmente per tutta questa città di Maratea inferiore, salirla nel Castello di Maratea superiore, obbligandosi di celebrare questa festa e processione solenne e generale del nostro Santo Protettore in ogni secolo, eleggendo la Domenica, o antecedente o susseguente la plenaria di Maggio, secondo che permetterò il tempo, coll’offerta di ogni anno, da ora a sempre, di ducati dieci con sua torcetta al Santo, in segno di sottomissione e dominio.

È perché detta Processione essendo generale e di obbligo per essere del Padrone Principale, noi, facendo atto pubblico ed istrumento, abbiamo domandato perdono al Santo della trascuratezza passata; per tanto supplichiamo V. S. Ill.ma e Rev.ma che voglia consolare e secondare i nostri desideri, e, nello stesso tempo, fomentare la devozione al S. Protettore, dandoci il suo consenso, obbligando il Clero regolare alla Processione, conforme di diritto, perché il Clero secolare l’ha già concluso, conforme ancora manderà supplica a V. S. Ill.ma e Rev.ma dal quale lo riceveranno a grazia da Dio, ecc.»

 

Non la prima festa.

L’ingrandimento della festa di maggio, con la calata della statua dal Castello al paese, non era però la prima festa con cui la popolazione di Maratea inferiore o Borgo (l’attuale centro storico) rendeva omaggio al santo. Una precedente celebrazione si teneva il 21 maggio di ogni anno, a partire dal 1677, nell’anniversario dell’assedio dei banditi che il paese aveva subito l’anno precedente, di cui è menzione nel documento. La celebrazione consisteva in una processione di penitenza con un cero. Per qualche decennio la nuova e la vecchia festa vissero insieme ma poi, esauritasi la generazione che aveva vivo il ricordo dell’assedio dei banditi, la ricorrenza del 21 maggio si perse.

 

E poi venne il panno rosso…

È da notare che per i primi anni della festa, la statua, nel trasportarsi dal Castello al paese non veniva affatto coperta.

Anzi, fu proprio questa particolare processione extra-parrocchiale a far nascere la contesa tra due parroci, don Domenico Lebotti (1729-1797) e don Francesco Vita Diodati (1715-1794). Lamentandosi il primo di non ricevere pagamento per la processione che terminava giù e di subire le prepotenze del secondo, che millantava di essere parroco di tutta Maratea, si innescò una complicata lite di diritto canonico, che fu trascinata fino a Napoli, dove terminò con l’intervento di un dispaccio reale, emanato il 20 gennaio 1781, che stabilì di abolire «la Processione, che si fa in occasione della restituzione della Statua di S. Biagio alla Chiesa di Maratea superiore, in quella inferiore, la quale restituzione debba farsi privatamente, e senza accompagnamento, e pompa veruna».

A sottolineare questo passaggio privato della statua tra le due parrocchie, a qualcuno – ignoto geniale estro! – venne in mente di coprire il simulacro con un panno, fatto su misura, color rosso.

Ai nostri antenati questa trovata non piaceva. Lo dimostrano i vari tentativi che si ebbero di rimuovere la copertura della statua, ma sempre i vescovi e le altre autorità canoniche preferirono evitare ogni ulteriore possibile nuova lite, e il panno rimase, fino a diventare oggi una caratteristica che è quasi il simbolo più vero della nostra tradizione.

 

La festa nel passato.

Non ci è possibile, allo stato attuale delle nostre conoscenze e ricerche, seguire lo sviluppo dell’intero cerimoniale della festa con precisione durante gli anni. Certo è che, ad un certo punto, si spostò la discesa del simulacro del santo dal secondo sabato stesso al giovedì precedente, ma non sappiamo quando ciò avvenne di preciso.

Un documento conservato nell’archivio di Stato di Napoli, però, ci svela come si svolse la festa nell’anno 1802. Si tratta del conto delle spese sostenute dall’Università – così allora si chiamavano i comuni! – per la festa stessa.

Per prima cosa sorprende la spesa di 30 carlini «agli uomini che calarono la Statua dal Castello.» La confraternita del santo, all’epoca, non era ancora stata ricostituita (lo sarà solo nel 1830) e, quindi, gli uomini che si facevano peso della statua andavano pagati per lo sforzo! Le processioni erano accompagnate dal trambusto di spari e mortaretti: ben 21 ducati e 50 carlini vennero spesi in polvere da sparo. Il simulacro, poi, veniva ricevuto anche con «il Palio e lo Stendardo di S. Francesco». Allo stesso modo del giovedì, anche nella processione del sabato si pagavano 20 carlini per «gli uomini, che portarono processionalmente la statua del santo per la Città».

Queste paghe, al di là della facile ironia, venivano corrisposte anche perché compito di questi uomini era anche di proteggere, oltre che portare, la preziosa statua. E infatti la sicurezza del simulacro premeva molto. Troviamo una spesa di 30 carlini dati «al Sagrestano Carmine Raele per aver guardato per tre notti in Chiesa la Statua di Argento del Santo». Per tutta la durata della festa il paese era abbellito con «oglio per illuminazione per tre notti», e il sabato sera si sparavano altri fuochi d’artificio, chiusi da «lo sparo de la sera del Sabato» che dobbiamo immaginare uno spettacolo più elaborato.

 

La presenza reale del santo.

Per secoli – se non un millennio e più – i nostri antenati hanno venerato il santo armeno senza avere la certezza che la cassa di marmo collocata nel Santuario contenesse realmente o meno le sue sante reliquie. Fu soltanto per volontà dell’energico parroco Damiano, rettore del santuario dal 1940 al 1969, che si poté effettuare una ufficiale ricognizione del sacro deposito. L’occasione si presentò quando, durante dei lavori alla chiesa, si dovette trasportare la cassa con le reliquie dal vecchio al nuovo sito della Regia Cappella che le custodisce, originariamente posta al centro della navata principale.

Il giorno «3 Maggio 1941, presente il Vescovo Diocesano Mons. Federico Pezzullo, il Rev.mo Clero della Sue Parrocchie, le autorità civili e militari, tutte le istituzioni della Città e numerosissimo popolo di tutte le contrade del Comune» racconta lo stesso mons. Damiano in un manoscritto da me studiato nell’archivio parrocchiale, «si è trasportata solennemente la S. Urna, contenente le Reliquie del Santo, dal sito dov’era (fianco della navata centrale) sul nuovo trono. Appena l’urna è comparsa tutta intera fuori la muraglia, è stata momentaneamente aperta (non essendo fisso il coperchio) e s’è potuto osservare esservi dentro realmente le S. Reliquie […]. Tra le acclamazioni e la commozione del popolo, l’urna trasudante copiosa Manna, si è portata processionalmente per tutta la Chiesa, sino ad essere riposta sul nuovo trono.»

Con la ricognizione si scoprì che l’urna contiene non solo il torace del santo, ma anche un femore, un osso del braccio e un frammento dell’osso frontale del cranio. Nel settembre dello stesso 1941 il coperchio dell’urna fu sostituito con una lastra di cristallo, di 7 millimetri di spessore, per rendere visibili le reliquie. Rimase così fino al 16 novembre 1951, quando fu nuovamente sigillata poiché si temeva che la sistemazione potesse danneggiare le reliquie.

 

La Manna.

Di tanto in tanto, durante la festa di maggio si verifica il fenomeno della Santa Manna, cioè la secrezione di un liquido incolore e insapore da tutti o alcuni marmi presenti nella Basilica. In correlazione al culto blasiano a Maratea, abbiamo notizie di questo fenomeno a partire dalla già citata bolla pontificia del 1562, in cui si dice che «S. Blasii corpus quotidie Manna scaturiens». Da questo punto della Storia fino ai giorni nostri innumerevoli sono state le registrazioni dell’avvenimento.

Né il S. Biagio di Maratea è l’unico santo legato a questo fenomeno. La Manna è attribuzione anche del culto di S. Andrea Apostolo ad Amalfi, di S. Matteo Evangelista a Salerno, di S. Sabino ad Atripalda, di S. Egidio a Latronico, alla beata Beatrice d’Este a Ferrara, di S. Felice a Nola, di S. Nicandro a Venafro, di S. Eutizio a Soriano del Cimino e, soprattutto, di S. Nicola di Mira a Bari.

Il sentire moderno non percepisce – a dire il vero da molto tempo – come accettabile e pacifico un evento miracoloso o sovrannaturale in correlazione ad un culto religioso o ad una pratica magica. È frequente, quindi, la ricerca di spiegazioni che riconducano a cause fisiche questo genere di fenomeni. Popolarmente, anche tra alcuni dei più fedeli devoti, si associa il fenomeno della Manna ad un sovraccarico di umidità – dovuto al clima o alla presenza di numerose persone nel ristretto spazio del Santuario – o, altre volte, ad uno stratagemma artificiale bell’e buono vecchio di secoli.

Eppure, sperando non urtare la sensibilità di alcuno, bisogna ammettere che queste spiegazioni empiriche hanno limiti evidenti e fortissimi. Valga un solo esempio. Nel suo lungo rettorato, il parroco Carmine Iannini (1774-1835), assistette a diversi fenomeni di Manna, tutti raccontati nel suo memoriale Di S. Biase e di Maratea. Discorso Istorico. Uno di questi, nel «nell’anno 1804., e primo di nostra cura, in tutto il decorso de’ mesi di Maggio, Giugno e Luglio, lo scaturimento non dall’Urna fu continuo, ed universalmente sia di giorno, che di notte, ed in tant’abbondanza, che se ne riempiettero [sic] due grossi barili. Cessò il dì primo di Agosto, e continuò a non comparire affatto, sino a tutto il mese di Settembre. Nella prima Domenica di Ottobre poi giorno in cui si celebra la sollennità [sic] del SS. Rosario della B. V. M. in tutt’i marmi e Colonne comparve di nuovo la Santa Manna, e continuamente anche di giorno, e di notte scaturì abbondantemente, sino a tutto il dì 25. Marzo del seguente anno 1805. e parimenti due grossi barili se ne riempiettero, che perciò ne restarono provveduti tutt’i suoi divoti, Naturali non solo di Maratea, ben vero degli altri Paesi di Basilicata, e delle limitrofe Provincie di Calabria, e Principato citeriore.» Prima novanta, poi quasi centottanta giorni consecutivi (e notti) di Manna, in stagioni diverse, sono veramente troppi sia per la più ostinata umidità che per la più assidua frequentazione accalorante umana.

Ma chissà, forse il rev. Iannini volle farci uno scherzo… se non farci riflettere meglio quando parliamo!

Luca Luongo

Luca Luongo

Io sono Luca e quella a lato è la mia faccia quando provo a rileggere un mio articolo. Nella vita racconto storie: a teatro le invento io, qui le studio dai documenti.

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