La squilla del 13 febbraro
Oggi è il 13 febbraio, la data che dà il titolo al più antico romanzo noto di letteratura italiana ambientato a Maratea: La squilla del 13 febbraro.
Scritta da Tommaso Lopez nel 1848, l’opera è stata ripubblicata lo scorso anno grazie a un finanziamento della Fondazione Ca.Ri.Ca.L. e all’impegno dell’Associazione Amici di Maratea e Associazione Lu.Pa. di Maratea.
Il racconto si svolge nel XVII secolo e ruota intorno Enrico e Maria, due ragazzi di Maratea, il primo figlio del barone di Castrocucco e la seconda una energica popolana. Il loro amore viene ostacolato dal padre di lui, che lo ha destinato a sposare una sua pari. Il barone arriva a far imprigionare il figlio coll’accusa infamante di tentato parricidio. Ma Enrico scappa e scompare. Maria, invece, viene rinchiusa nel castello di Castrocucco, tormentata da Donato, servitore del barone e suo carceriere.
Ma, una notte, una banda assalta il castello e libera Maria, che si ricongiunge a Enrico. Ma la loro felicità è ostacolata dalla violenza subita da Maria, che decide di chiudersi in un convento.
La storia del racconto venne riassunta brillantemente soprattutto grazie alle letture dell’ottimo Vincenzo Paolicelli, attore materano e amico di Maratea.
Il volumetto è stato distribuito gratuitamente in 300 copie. Chi non ha potuto prenderne una può scaricare la copia digitale a questo link.
Il 28 agosto scorso, durante la presentazione del volume, come curatore dell’edizione invitai tutti a leggere subito il racconto… meno le ultime due pagine. Per quelle, dissi, di aspettare la notte tra il 12 e il 13 febbraio… cioè quella appena scorsa.
Leggiamole e scopriamo insieme a cosa deve il titolo il racconto:
Nella notte del 13 febbraro 1836 un viaggiatore pervenuto in Maratea non potea chiuder gli occhi al sonno. Era quella notte burrascosa e scura. Il vento imperversava con una furia precipitosa. Ad accrescere l’orrore che regnava in tutta la natura, colui udì misto al fracasso orribile della tempesta il cupo squillo di una campana, che lento lento si ripeteva, lasciando negli animi un’eco d’incomprensibile spavento. Così continuò per un’ora intera.
Quando spuntò l’alba, volle interrogar la donna, che aveva oltrepassati gli anni sessanta, in casa della quale si rattrovava, intorno al motivo in cui quella funebre squilla erasi fatta udire. Colei gli rispondeva: – Oh, mio signore! Egli è, perché un tempo si sono intese ed anche vedute delle strane maraviglie in quella stretta gola di montagne che separa questo paese dall’altro detto Trecchina. Io ne udiva favellare dal mio nonno, che ne aveva ascoltato il racconto dal suo.
– E che cosa mai vi narrava?
– Oh Dio! Vi dirò… ma tremo tutta ripensandovi. In quella gola, quando suonava la metà della notte del 13 febbraro, notte anniversaria della morte di una monaca e di un eremita, le loro ombre mostravansi, e ciascuna incamminandosi da un lato opposto, a passo lento e solenne andavano ad incontrarsi. Benché siate qui da pochi giorni, stupisco che qualcuno non vi abbia parlato di questo fatto. Era un caso, credetemi, da far tremare i più intrepidi. Quei due fantasimi si davano le mani e smaniavano sì forte, e tal fracasso, tali urli, tai gemiti si udivano, che le genti dei due paesi, comeché ciascuno lontano da quel luogo due miglia, venivano destate, ed era forza che una donna incinta morisse al parto in quell’ora medesima.
– E sotto quale abito comparivano gli spiriti?
– Ve l’ho detto, uno da monaca e l’altro eremita.
– E chi furono in loro vita costoro?
– Si vuole che fossero stati due eretici, che il diavolo si portò via.
– E quale relazione ha tutto ciò col suono della campana?
– Ecco. Esso serve a scongiurarli.
Poco soddisfatto di questa popolare credenza, volle colui consultare un sapiente, dal quale gli fu narrata la storia da noi esposta. E conchiuse che il padre di Errico, morto per doglia pochi giorni dopo il tragico avvenimento, dispose di un legato per la chiesa di S. Biagio, a condizione che in ogni anno, alla metà della notte del 13 febbraro, la lugubre squilla commemorasse la funesta catastrofe dei due infelici da lui sacrificati, e invitasse i mortali a pregar pace alla loro anime.
Così la malvagità degli uomini insanguina la terra, e lega ai posteri una testimonianza d’inutile espiazione e di tardo ravvedimento.