Dopo l’Unità d’Italia il Sud si è arricchito o impoverito?
A centosessant’anni dalla Spedizione dei Mille, le conseguenze dell’unificazione della Penisola e l’impatto che ebbe nelle province dell’ex Regno delle Due Sicilie sono oggetto di discussione.
Mentre la storiografia scientifica, forte di una lunga tradizione di studi e dei contributi dei meridionalisti, ne ha da tempo descritto eventi e portata, una corrente molto in voga su internet connota tutto il Risorgimento con tinte decisamente negative.
Ma, in particolare, il Sud d’Italia in questo secolo e mezzo è diventato più ricco o più povero?
Gli studi economici del 2011.
In primo luogo, un chiarimento. Ci si può arricchire e impoverire di molte cose: infrastrutture, servizi, istituzioni, peso demografico. Ognuna di queste cose, così come la loro somma, va a costituire l’economia, in senso largo, di un territorio. Ma la maggior parte delle cose sopra enumerate sono difficilmente quantificabili in dati numerici.
Per quel che ci interessa qui, considereremo principalmente l’aspetto del Prodotto Interno Lordo (PIL). «La fortuna del PIL sta, – ha sintetizzato calzantemente un economista – nella sua natura: sintetizza, infatti, in un unico numero, il valore della produzione di tutti i soggetti economicamente attivi di un paese (imprese, amministrazione pubblica, istituzioni non profit e famiglie) durante un certo lasso di tempo. Un numero tanto semplice quanto affascinante, nato creato per essere calcolato rapidamente, sulla base di dati facilmente disponibili, senza basi nella teoria economica ma frutto di convenzioni efficaci e congegnate per assolvere una funzione di orientamento alle istituzioni preposte al governo dell’economia […]. Un numero capace di stabilire il successo di una nazione».
Negli anni precedenti al 2011, per l’approssimarsi del 150esimo anniversario dell’Unità, si sono moltiplicati gli studi sul progresso economico italiano e sul divario tra Nord e Sud. Tra i più interessanti, quello di Vittorio Daniele e Paolo Malanima.
Due velocità diverse.
Con un lungo lavoro, Daniele e Malanima hanno trovato i numeri dell’andamento dell’economia nazionale nei centocinquant’anni di vita unitaria italiana. Complessivamente, il PIL-pro capite dell’Italia del 2011 era di tredici volte superiore a quello dell’Italia del 1861.
Le due linee rappresentano l’andamento della crescita del Nord (viola) e del Sud (celeste). Come si vede, entrambi fanno registrare, nel lungo periodo, una grande crescita. Ma l’entità di questa crescita è nettamente diversa.
Mentre l’economia globale italiana aumenta il suo PIL-pro capite di tredici volte, quella ristretta del Sud lo fa di sole dieci volte. Un aumento deludente rispetto al Nord (cresciuto di sedici volte), ma pur sempre cospicuo e notevole in sé stesso, oltreché in linea con la media europea dello stesso periodo.
Riassumendo i dati e volendo dare una prima risposta alla domanda del titolo, dopo l’Unità d’Italia il trend dell’economia del Mezzogiorno è stato segnato da un lento, sebbene pressoché costante, miglioramento rispetto al Mezzogiorno del passato ma da una altrettante costante perdita di terreno rispetto al Settentrione contemporaneo.
Nel 1861 il prodotto di valore aggiunto pro capite di media dell’Italia settentrionale era del 16% superiore a quello del Sud, nel 2009, nonostante il valore assoluto di entrambi i dati sia notevolmente cresciuto, il divario era del 43% sempre a favore del Nord.
Da qui il paradosso: il Sud si è molto arricchito in sé stesso ma, ciononostante, il distacco dal Nord è aumentato.
Il meridionalismo italiano e quello europeo.
Al secolo e mezzo di Unità è corrisposto un altrettanto lungo periodo di dibattito e discussione storica, politica e statistica sul dualismo italiano: il meridionalismo. Abbandonate le retoriche stantie o espressamente razziste della seconda metà dell’Ottocento, con Giustino Fortunato (1848-1932) e Francesco Saverio Nitti (1868-1953) – entrambi nostri corregionali – gli studi hanno assunto una forma e toccato temi divenuti tradizionali: la smitizzazione della presunta naturale ricchezza del Mezzogiorno, castigato unicamente dall’indolenza dei suoi governanti (un mito che, occorre dire, ogni tanto si riaffaccia anche localmente), l’uso dei dati statistici per misurare e comprendere i vari problemi, l’analisi delle politiche nazionali nel e sul Mezzogiorno rispetto alle corrispettive al Nord e così via.
Tutto il dibattito s’è incentrato sul perché il Mezzogiorno non abbia corso veloce quanto il Settentrione. Eppure, una prospettiva interessante per il felice prosieguo degli studi potrebbe essere il ribaltamento della prospettiva: perché il Nord ha corso di più?
Questo cambio di ottica, specie in chiave europea, mi pare molto affascinante, anche perché la prospettiva continentale permette di scorgere in Europa diverse questioni meridionali.
Fatta eccezione per grandi agglomerati urbani che cambiano le carte in tavola del quadro economico (come Parigi in Francia, Bilbao e Madrid in Spagna, Dublino ed Edimburgo nell’arcipelago britannico, le capitali scandinave e Atene in Grecia), la ricchezza europea ruota intorno all’asse Londra-Amsterdam-Francoforte-Monaco di Baviera-Milano. La lontananza o la vicinanza da quest’asse è determinante per la prosperita di una regione europea.
La crescita strepitosa dell’Italia settentrionale è iniziata intorno al 1890, cioè in coincidenza con la seconda industralizzazione europea, la quale, come è noto, incise nello sviluppo delle medesime regioni che oggi sono le più ricche del continente. Nonostante anche il Mezzogiorno d’Italia abbia avuto in quel medesimo periodo insediamenti industriali di rilievo (il nuovo arsenale di Napoli, i cantieri navali di Palermo e Taranto, l’Armstrong di Pozzuoli ecc.), fu proprio la maggiore e più capillare trasformazione industriale a determinare l’accellerazione decisiva dell’economia del Nord.
La vicinanza dell’Italia settentrionale alle zone divenute le più dinamiche d’Europa è stato un fattore fondamentale.
Tra l’altro, questo della prossimità o lontananza dal cuore dinamico dell’economia europea fu anche il fattore su cui per primo si concentrò la riflessione di un meridionalista ante-litteram, vissuto nei primi anni del XVII secolo: il cosentino Antonio Serra. Questi annoverò tra le cause della povertà del Regno di Napoli «il sito pessimo del regno […] poiché estendendosi l’Italia fuor della terra come un braccio fuori del corpo, che per questa causa è stata detta penisola, il regno è situato nella mano ed ultima parte di detto braccio, si che non torna comodo ad alcuno portar robe in esso per distribuirle in altri luoghi; e intanto è vero che il sito del regno per tal rispetto sia pessimo, che ad alcuno non bisogna mai passare per quello per andare ad altro paese, sia di qualsivoglia parte del mondo e voglia andare in qualsivoglia altra, se non vi vuol passare per suo gusto e allungare la strada, o che vi vada per negoziati proprj, per lo che non solo non è comodo a’ negozj di portarvi robe per distribuirle in altri luoghi, ma è d’incomodo e danno».
Allo stesso tempo, hanno inciso anche altri fattori. Ad esempio, la maggiore arretratezza strutturale che il Sud del 1861 ereditava dell’epoca preunitaria: 128 km di ferrovie contro i quasi 2.000 km del Nord o lo spaventoso 91% di popolazione analfabeta contro il 59% delle regioni settentrionali.
Ma questi dati – a cui se ne potrebbero affiancare tanti altri – rendono ancor più notevole il progresso economico del Mezzogiorno dopo l’Unità, che evidentemente partiva da molto più indietro e, ciononostante, ha fatto più strada (dal 1861 al 2011) di altre zone depresse del continente.
Il paradosso dell’emigrazione.
Gran parte delle letture superficiali della questione merdionale agita il fenomeno dell’emigrazione postunitaria come la prova provata dell’arretramento economico delle regioni del Mezzogiorno dopo il 1861. In realtà, la cosa è molto più complessa.
L’emigrazione è senz’altro scatenata in nuce da un disagio economico, ma questo disagio non è necessariamente dovuto a una decrescita storica, ma anche a una imperfetta ripartizione della ricchezza zonale. Al dato medio, infatti, non corrisponde la distribuzione della ricchezza.
Il progresso economico inevitabilmente lascia indietro settori produttivi obsoleti, i quali espelgono lavoratori che il sistema non è più capace di riassorbire.
Per di più, la grande emigrazione italiana ha coinvolto tutta la Penisola: anzi, la regione che in assoluto ha dato più emigrati è stata il Veneto.
Per paradossale che possa sembrare, l’aumento della ricchezza media di una nazione in via di sviluppo durante un’epoca in cui l’economia globale faceva avanzare a passi ancor più grandi altre zone del mondo facilitava i movimenti migratori: gli espulsi dal sistema produttivo dell’una avevano quel minimo di risorse per spostarsi nel mercato delle altre. D’altra parte, è ciò che viviamo anche oggi, in un’Italia divenuta anche meta di immigrazione.
Letture.
Per chi volesse approfondire, oltre lo studio di Daniele e Malanima, consiglio la lettura del bel volume In ricchezza e in povertà, a cura di Giovanni Vecchi, che riassume e spiega con grande efficacia i dati statistici raccolti nel 2011.